di Vito Bianco

A quell’ora nel caffè c’era sempre poca gente. Notai due signore anziane e un vecchietto tutto bianco con le mani appoggiate a un bastone nero e lo sguardo perso nel vuoto, che mi fece venire in mente un altro vecchio e un altro bastone. Lui era seduto a un tavolo lontano: un sigaro spento tra le labbra spesse, i baffi spioventi e i capelli lunghi e grigi pettinati all’indietro come Montgomery Clift. I baffi erano una sorpresa: avrei giurato di non aver mai visto un solo ritratto fotografico in cui apparisse con i baffi. Doveva perciò trattarsi di una novità abbastanza recente. Davanti aveva un libro e un boccale di birra pieno a metà. Mentre percorrevo quei pochi metri per raggiungere il tavolo, cercavo di preparare le parole d’esordio. Intanto, mi dicevo, buongiorno e grazie per avere accettato di incontrarmi. Frase fatta ma ineludibile. E poi? Non sapevo. Non mi veniva in mente nulla, in quel momento. Avrei improvvisato a partire dalle sue prime parole, che mi avrebbero suggerito, speravo, una battuta o una citazione da esibire in chiave ironica. Camminavo con voluta lentezza sempre guardando lo scrittore che ammiravo, di cui avevo letto tutto, compresa quella prima raccolta di racconti brevi pubblicata da un piccolo editore di cui oggi quasi nessuno si ricorda. Due o tre volte l’avevo anche sognato. In uno di questi sogni parlavamo. A un certo punto gli facevo notare, aprendo il volume alla pagina che avevo evidenziato con una striscetta adesiva di carta colorata, che Feliberto Herrera aveva scritto una frase identica alla sua. Lui mi prendeva dalle mani il libro per controllare, e dopo aver letto diverse volte il passo che gli indicavo con l’unghia lunga del medio, diceva: “Ha ragione; identica; uguale anche nel numero delle virgole e dei punti e virgola. È curioso. E improbabile. Ma può succedere. Sono sicuro che Feliberto non ha copiato, non intenzionalmente, almeno”. Ripensandoci sorrisi. Il sogno finiva con l’apparizione di Herrera che diceva, abbracciandolo: “Grazie per aver scommesso sulla mia buona fede, Edmundo”.
Quando ero ormai a un solo passo dal suo tavolo, Edmundo Gonzalo Torres, l’appartato autore di Pesadilla, alzò gli occhi dal libro e li puntò su di me. Non sorrise. Io invece sì. Dissi: “Grazie per aver accettato di incontrarmi; non ci speravo. So che è molto impegnato…” “Non si preoccupi” mi rassicurò, “tutto quello che devo fare può aspettare: scrivere una pagina, riscriverla, cancellarla, dimenticarla. Dimenticarla è la cosa più difficile. Lo sapeva?” Senza darmi il tempo di rispondere (avrei risposto che l’avevo imparato a mie spese) disse ancora: “Ci siamo già visti, mi pare…” “Non credo” dissi. “Anzi, sono sicuro di no: come potrei aver dimenticato un incontro con l’autore di Pesadilla e di…” “Si sieda” mi interruppe Gonzalo Torres, accompagnando le parole con un movimento della mano. “Ma lei è proprio sicuro di non ricordare? Un caffè molto simile a questo…più o meno la stessa ora…un libro…” “No, mi dispiace” risposi. “E dire che ho sempre avuto una buona memoria, soprattutto per le facce. Una faccia, io non la dimentico mai, nemmeno dopo molti anni”. “Guardi questo passo” disse lo scrittore, avvicinandomi il libro che aveva davanti, con l’unghia del medio sotto la prima parola della lunga frase che voleva farmi leggere. La parola era un avverbio, l’avverbio “raramente”. “La riconosce?” mi chiese.
Certo che la riconoscevo. Era la frase con cui si apre l’ultimo capitolo di Pesadilla. “Ha ragione” dissi piano, alzando gli occhi dalla pagina. “Ci siamo già visti. In effetti, il caffè era quasi identico a questo, e c’era anche il suo amico Feliberto, se la memoria non mi inganna”. “Giusto. Che mi abbracciava per ringraziarmi di aver creduto nella sua buona fede. Lo sto aspettando”. “L’abbraccerà anche stavolta?” domandai. “Sì, anche stavolta” mi rispose, coprendo la mia mano con la sua, grande, calda e asciutta. “Vorrei chiederle il permesso di raccontare ai lettori del mio giornale questo incontro, e l’abbraccio che si ripeterà tra poco…” “Ma certo. Non c’era nemmeno bisogno di chiedermelo. Qualcuno deve averle parlato del mio brutto carattere, esagerando” disse subito. “Credevo però che l’avesse già fatto”. Fece un pausa e aggiunse: “Ha forse pensato che fosse un sogno?” “Proprio così” risposi, per stare al gioco. “Come questo. Ma i miei lettori non lo sapranno”.
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Dipinto di Giuseppe Agozzino
