Giuseppe Agozzino, ’19

Conversazione di Simona Riccobene con Alfonso Lentini

 

Il testo che segue, leggermente rielaborato e sintetizzato, fa parte della documentazione raccolta da Simona Riccobene per la sua tesi di Diploma accademico di II livello in Design per l’Editoria, intitolata “Anamnesi. Pubblicazioni periodiche di neoavanguardia nella Sicilia degli anni Sessanta e Settanta” (Isia Urbino, A.A. 2018, relatore Mauro Bubbico).

 Qual è la sua formazione?

Mi sono laureato a Palermo in filosofia e ho insegnato per molti anni italiano e storia nelle scuole superiori di Belluno, ma contemporaneamente mi sono occupato e continuo a occuparmi di arte e scrittura letteraria con momenti di sperimentazione che tendono a una commistione fra immagini e parole. Continuando a praticare la ricerca vebovisuale, la scrittura irregolare e altri territori contigui, non mi sono mai del tutto allontanato dallo spirito che nei primi anni Settanta del secolo scorso animava, sia pure embrionalmente, il Gruppo ADES. In generale la mia formazione parte dal clima politico-culturale di quel periodo, il clima delle neoavanguardie e della contestazione, che in quegli anni si respirava anche nella facoltà di filosofia di Palermo e di cui anche il Gruppo ADES fu espressione.

Ades: da cosa nasce l’idea?

Il Gruppo ADES ha operato intorno agli anni settanta tra Favara, Agrigento e Palermo prevalentemente in ambito artistico e letterario, ma con un taglio “sperimentale”, dunque con la massima apertura a ogni tipo di contaminazione fra i generi, con lo sguardo diretto verso la Neoavanguardia e con molta attenzione ai temi della contestazione.

Il nome ADES è una “polisemia”: può essere considerato un acronimo (Azione Di Estetica Sperimentale), ma può significare anche ADES(so) o ADES(ione), come richiamo all’assunzione di responsabilità nei confronti del presente. Infine può alludere alla figura mitologica di ADES, dio degli inferi e di conseguenza delle cose nascoste… Il nome (in sé volutamente un po’ enigmatico) in sostanza riassume le intenzioni che hanno dato origine al Gruppo: collegare la sperimentazione artistica alle tensioni della società contemporanea e agire con atteggiamento critico e anticonformista. Erano queste le idee che hanno fatto nascere le varie iniziative che abbiamo poi via via realizzato.

Volevamo sfuggire agli schemi, rompere gli steccati e praticare le varie forme di espressione con la massima libertà, con spirito anarchico, ma anche con la consapevolezza che certi tentativi avrebbero potuto rinnovare profondamente sia l’arte che la poesia.

Come è entrato in contatto con gli altri membri del gruppo Ades?

L’esperienza è nata da rapporti di amicizia e di sintonia culturale nati spontaneamente. Io ero giovanissimo, nel 1969 frequentavo ad Agrigento l’ultimo anno del liceo classico. Alcuni di noi erano già amici fra loro, altri si sono via via aggregati attraverso le riunioni che venivano pubblicizzate con il passaparola. In origine, furono i meno giovani del Gruppo, Rino Garraffo e Giuseppe Nicotra, a promuovere quelle riunioni dove si parlava di arte, poesia e letteratura con un taglio decisamente innovativo. Rino Garraffo e Giuseppe Nicotra avevano una maggiore preparazione culturale e la misero a disposizione degli altri lanciando l’idea di dar vita a un Gruppo di “Azione estetica”. Nicotra aveva già pubblicato con le edizioni Rebellato un bel libro di poesie, “I colpevoli”; Rino Garraffo era già un artista di un certo valore.

ADES fu costituito da Rino Garraffo, Giuseppe Garraffo (senior), Giuseppe Garraffo (junior), Alfonso Lentini, Antonio Liotta, Giuseppe Nicotra, Lillo Nicotra, Antonio Patti, Matteo Vullo. Carmelo Carisi partecipò solamente alla prima mostra del Gruppo, ma non ne fece mai effettivamente parte.

Qual era il vostro obiettivo?

L’obiettivo era di smuovere, attraverso azioni talvolta anche provocatorie, il clima di stagnazione dal quale ci sentivamo oppressi vivendo in un contesto difficile come quello di Favara, grande centro della Sicilia più emarginata, caotico, inquinato da mafia, speculazione edilizia e malavita, ma soprattutto – specialmente in quegli anni – culturalmente e antropologicamente arretrato.

Copertina di “ADES” n. 4, rivista aperiodica ciclostilata a Favara, aprile 1971

Come erano organizzate la redazione, la produzione e la distribuzione?

Non c’era un rapporto gerarchico. Lo stile di lavoro, come era tipico di quegli anni, era quello del “collettivo”. Ci si incontrava in appassionate e interminabili riunioni, si discuteva a volte anche polemicamente, ma alla fine le scelte sia tecniche che di linea politico-culturale, si prendevano all’unanimità cercando di mediare democraticamente eventuali differenze di vedute.

Le nostre attività erano finanziate con sottoscrizioni, con il ricavato delle vendite dell’omonima rivista ciclostilata e anche con il contributo del “Cento Servizi Culturali” cioè un centro ENAIP di Agrigento (gestito da Gian Carlo Marchesini e da altri operatori di cui non ricordo i nomi) che più di una volta ci offrì gratuitamente non solo i locali per le riunioni, ma anche ciclostile, carta e inchiostro.

In mancanza di altre tecnologie più evolute, il ciclostile era allora la forma più usata per diffondere in modo semplice ed economico i materiali prodotti. Solo raramente, per stampare qualche manifesto e depliant, ci rivolgevamo alle tipografie.

La rivista veniva distribuita e venduta nello stile dei movimenti di quegli anni: per strada, in occasione di eventi politico-culturali o spedita per posta a un pubblico “mirato”. Mi sembra di ricordare che fu anche venduta in qualche edicola individualmente disponibile.

In cosa consistevano le vostre “Azioni di estetica sperimentale”?

Le nostre “azioni” furono numerose, anche se di esse ormai è rimasta una documentazione frammentaria.

Provo ad elencarne alcune per come le ricordo.

  • Pubblicazioni: “ADES”, rivista ciclostilata aperiodica di cui uscirono cinque o sei numeri; documenti di carattere politico-sociale; semplici volantini di una pagina a proposito di eventi sui quali volevamo prendere posizione.
  • Mostre di arte (Galleria “Il Gattopardo di Favara”, Galleria “La Cariatide” di Agrigento diretta da Andrea Carisi…). Particolarmente significativa a mio parere fu la mostra allestita alla Cariatide, “Azione 5”. Purtroppo di quell’evento non resta quasi nessuna documentazione fotografica perché nella disorganizzazione generale, accadde che affidammo l’incarico di scattare le foto a un fotografo professionista (di cui non ricordo il nome) che venne appositamente in galleria per realizzare il servizio. Forse per sua negligenza, però, non ci consegnò mai le foto, nonostante i nostri numerosi solleciti. Perciò, in mancanza di immagini significative, provo a descrivere a parole, per come ne conservo il ricordo, cosa venne esposto in quell’occasione. Si trattava di lavori ispirati all’Arte Povera e Concettuale e alla Poesia Visiva. Le pareti della galleria erano percorse in orizzontale da un’opera collettiva: una lunga striscia costituita da fogli macchiati di inchiostro: scarti o prove di stampa dei nostri lavori al ciclostile che formavano una sorta di poesia visiva. Il ciclostile era in quegli anni una presenza costante nelle attività culturali e politiche, lo si usava negli uffici, nelle scuole; per questo cercammo di sperimentare le sue potenzialità “alternative”, dando a quella procedura un senso diverso rispetto all’uso che se ne faceva correntemente. Ricordo poi alcune opere: una vecchia e lisa fodera di materasso per bambini su cui, in un angolo, era scritta a matita una parola che non ricordo (Rino Garraffo); alcune “doghe” di vecchie botti disposte per terra a formare una sorta di ossatura di un animale preistorico (Antonio Liotta); un telaio dove al posto della tela erano inseriti dei rotoli di lana d’acciaio (Antonio Liotta); alcune tele astratte disposte per terra come se fossero un tappeto (Lillo Nicotra); vasi in cui erano stati piantati semi di frumento che germogliarono durante la mostra, accanto ad alcuni girasoli che nel frattempo appassivano come rappresentazione dinamica del ciclo di nascita e morte (Antonio Patti); barattoli vuoti, dipinti nella parte esterna (Giuseppe Nicotra); per quanto mi riguarda, ricordo di aver esposto dei grossi sassi su cui avevo riprodotto con le lettere trasferibili pezzi di frasi. I sassi, posizionati avarie altezze, erano poi collegati fra loro da alcuni fili sottilissimi di cotone che attraversavano lo spazio incrociandosi fra loro e formando una struttura sospesa. Avevo poi esposto delle sfere di carta o di altro materiale intorno a cui avevo aggrovigliato una grande quantità di fil di ferro, ed anche qualche mia poesia visiva su carta.
    I partecipanti a quella mostra furono: Alfonso Lentini, Antonio Liotta, Antonio Patti, Giuspeppe Garraffo (senior), Giuseppe Garraffo (junior), Giuseppe Nicotra, Lillo Nicotra, Rino Garraffo.
  • Performances e reading (letture pubbliche di poesie nostre o di poeti contemporanei ai quali ci sentivamo vicini: Allen Ginsberg, Edoardo Sanguineti, Lamberto Pignotti…). Una di queste iniziative (“Azione 3”) fu un evento quasi “teatrale” perché la lettura delle poesie era collegata alla proiezione di diapositive e a micro azioni sceniche. Durante l’inaugurazione delle mostre si svolgevano a volte anche delle performances, ricordo ad esempio che quando inaugurammo “Azione 5” nella galleria di Andrea Carisi, Antonio Patti percorse tutta la via Atenea portando a tracolla una sacca piena di frumento, e sparse i semi per terra, mimando il tipico gesto del contadino.
  • Incontri su temi socio-politici di attualità.
  • Produzione di filmati: documentari di carattere sociale su Favara o filmati “sperimentali”.
Una delle poche documentazioni fotografiche della mostra “Azione 5” (Agrigento, Galleria “La Cariatide” di Andrea Carisi, agosto 1971).

A chi vi rivolgevate? Qual era il vostro pubblico?

Le nostre azioni erano mirate a creare dialogo, ma anche conflittualità con l’ambiente in cui vivevamo, come del resto è tipico dei movimenti di avanguardia in generale. Tuttavia la nostra attività (e specialmente la rivista), sia pure a macchia di leopardo, ebbe un pubblico e un’attenzione superiori ai confini territoriali entro cui operavamo.

Cercavamo per esempio di costruire rapporti con altri gruppi e movimenti che in quegli anni operavano sul territorio nazionale con modalità simili alla nostra, scambiandoci lettere e il materiale prodotto.

Considerando il contesto nazionale, quali erano i vostri punti di riferimento? A quali altre esperienze sperimentali in Italia o all’estero vi ispiravate? Eravate in contatto qualcuna di queste realtà?

I nostri riferimenti erano molti. Riviste come Quindici, Marcatrè, movimenti come il Gruppo 63, il Gruppo 70 (e la Poesia Visiva), il Neodadaismo, l’area della cosiddetta “controcultura” giovanile… Figure di poeti come Edoardo Sanguineti… Scrittori come Gaetano Testa… La beat generation americana, e in particolare poeti come Allen Ginsberg… E poi l’Arte Povera, l’Arte Concettuale, artisti come Manzoni, Paolini, Kounellis, Isgrò…

Cercammo, sia pure con difficoltà facilmente immaginabili, di stabilire contatti con realtà simili alla nostra. Entrammo in rapporto con alcune riviste sperimentali (Tèchne, Salvo Imprevisti…), con il “Centro di Documentazione di Pistoia” e con alcuni singoli artisti e poeti come Raffele Perrotta, Antonino Cremona e, per quanto riguarda il versante più politico-sociale, fummo in contatto con Michele Pantaleone sul quale il nostro gruppo, in occasione di un processo nel quale era stato coinvolto nella sua lotta alla mafia, produsse un ”documento”.

Ma il rapporto più significativo fu certamente con il Gruppo Fasis di Palermo.

Come è iniziata la vostra collaborazione con Fasis, di che natura fu il vostro rapporto

Dopo aver pubblicato i primi numeri della rivista ciclostilata, con nostra piacevole sorpresa, ricevemmo da Palermo una lettera di Gaetano Testa (scrittore che aveva partecipato alla fondazione del Gruppo 63 ed aveva pubblicato un romanzo con Feltrinelli) che, non so come, aveva avuto fra le mani la nostra rivista e ci invitava a metterci in contatto con lui e con il Gruppo Fasis che intendeva operare a Palermo con modalità simili alle nostre. Nel frattempo alcuni di noi frequentavano o stavano iniziando a frequentare l’università in quella città e dunque non fu difficile conoscerci personalmente. Però la prima volta furono Gaetano Testa e Francesco Gambaro, con altri giovani del gruppo, a venirci a trovare sino a Favara. Ho un bel ricordo di quell’incontro! Erano molto incuriositi e si stabilì subito un rapporto amichevole.

Si organizzarono altri incontri. Uno fu una specie di assemblea pubblica, nella sede del “Centro Servizi Culturali” di Agrigento. Altri si tennero a Favara o a Palermo. Quelli di noi che studiavano a Palermo frequentavano quasi regolarmente le riunioni di Fasis che si svolgevano a casa di Gaetano Testa o nella libreria Flaccovio. Un numero della rivista Fasis (n. 4, giungo 1971) fu diviso esattamente per metà, una delle quali venne riservata ai testi prodotti dal Gruppo ADES (quei testi, insieme a tutti i numeri della rivista, sono stati successivamente ripubblicati nel volume Fasis, rivista di letteratura 1970-1977, ed Perapp, Palermo 2005). Sicuramente, da parte del Gruppo Fasis, fu un gesto di condivisione e solidarietà.

Qual è stato il vostro ruolo politico e/o sociale all’interno della comunità di Favara e di Palermo?

La nostra attenzione per i temi sociali era molto forte e le nostre “azioni” volevano essere comunque “politiche” (“tutto è politica”, si diceva) e a volte lo furono anche esplicitamente. Ci capitò qualche volta di aderire come Gruppo a eventi e manifestazioni politiche organizzate da altri movimenti . Il clima di quegli anni era molto stimolante in questo senso e ci obbligava a confrontarci continuamente con la politica e alcuni ci noi individualmente, oltre a operare nel gruppo, militavano contemporaneamente in movimenti politici o partirti, dal PCI ai “gruppuscoli” della sinistra studentesca ed extraparlamentare.

Poesia visiva di Alfonso Lentini (in “ADES” n. 4, aprile 1971)

 

Per quanti anni è durata questa esperienza, come si è conclusa?

Il gruppo si formò intorno al 1969 e si andò avanti sino ai primi anni settanta. Per tre o quattro anni. L’esperienza poi si è gradualmente esaurita sia per motivi contingenti (trasferimento da Favara di alcuni componenti), sia per il mutamento del clima generale e per un naturale sviluppo delle singole personalità che via via cominciarono a operare autonomamente nei campi più diversi…

Anche se concentrate in pochi anni, le iniziative del Gruppo ADES furono però numerose, ma purtroppo di quelle attività oggi rimane una scarsa documentazione. E molti ricordi personali.

 Cosa significava fare cultura in Sicilia?

Fare cultura, se per cultura si intende azione critica e creativamente aperta, era (e penso lo sia ancora oggi) un gesto di sfida e di coraggio intellettuale. Nel clima chiuso e arretrato di quegli anni lo fu ancora di più, ma non bisogna dimenticare che lo spartiacque del Sessantotto aveva prodotto o stava producendo crepe significative anche nei territori considerati più emarginati. ADES fu una di queste crepe.

Uno dei vostri intenti era quello di “smitizzare il Sud” mettendo in discussione i luoghi comuni che riguardavano questa terra. Credete di esserci riusciti, anche solo in parte?

Abbiamo fatto del nostro meglio, nel senso che abbiamo cercato di offrire l’immagine di un Sud meno provinciale e isolato, capace di entrare in dialogo con le più stimolanti tensioni intellettuali di quegli anni cercando di collegarci, dall’estrema periferia del Sud, alle avanguardie letterarie e artistiche che in quegli anni stavano mettendo in subbuglio la cultura tradizionale. Abbiamo voluto fare i conti con quel subbuglio aprendo la prospettiva in ogni direzione e operando dunque nel campo della  sperimentazione poetica e visuale, ma anche in altri campi, senza escludere prese di posizione politiche e di aperta contestazione del sistema.

Sicuramente abbiamo agito con qualche ingenuità e improvvisazione, ma anche con molta passione e coraggio intellettuale.

Di Bac Bac