di Vito Bianco

  Non l’avevo sentito rientrare, perciò avevo creduto che avesse passato la notte fuori. A spasso per le viuzze del centro oppure a casa di lei, di Gina, se la faccenda si era messa sul buono, se si erano chiariti o, meglio, se lei era riuscita anche solo un po’ a incrinare quel suo a volte davvero folle muro di diffidenza e di tenaci pregiudizi, per non parlare della malinconia scontrosa di provinciale che gli anni in città non erano riusciti a sciogliere, forse solo un po’ ad attenuare. Ma Lele era fatto così, prendere o lasciare. E a prenderlo, col tempo, e pazientemente riuscendo a conquistarne la fiducia, ti si apriva come nessuno era capace di fare alla sua età, al modo di un adolescente che per ammirazione e poi subito con vero affetto si lega così tanto a un adulto che per lui sarebbe capace di dare la cosa più preziosa che possiede.

  Avrei poi saputo dalla sua stessa voce che per rientrare era rientrato (tardi, alle quattro di notte) ma che dopo un’ora, insonne e inquieto, era uscito di nuovo a camminare sul viale fino a quando il primo bar non aveva alzato la saracinesca accogliendo il nottambulo e riscaldandolo con il primo espresso della giornata.

  Fin da subito sull’incontro erano circolate almeno tre versioni diverse: quella di Mario, quella di Ferruccio e la mia, quest’ultima dichiaratamente ipotetica, che poteva però contare su una vicinanza, per così dire, intellettuale e un maggior numero di ore passate con lui, ascoltando quel che pensava del mondo in genere e delle donne in particolare, più, ogni tanto, quando era lievemente ubriaco, il racconto delle lunghe giornate trascorse con uno zio allevatore, fratello della madre, dal quale diceva di avere imparato tutto quello che serve nella vita. Strano, perché non ho mai conosciuto nessun altro che mostrasse di starci con meno disinvoltura di lui, impacciato e diverso ovunque, e in ogni posto fuori luogo, come capitato per caso e sempre sul punto di andarsene, sempre a disagio, insofferente, nascosto, introvabile.

  Mario, il siciliano, passava le giornate seduto nell’unica poltrona comoda della casa, con un libro di psicologia in equilibrio sul ginocchio di una gamba accavallata e una matita a due punte con cui segnava le righe della pagina che stava leggendo: col rosso quelle più significative; col blu quelle che lo erano meno. Si grattava la testa con l’unghia lunga dell’indice destro e ogni mezz’ora si toglieva gli occhiali da miope e si massaggiava gli occhi. Per Mario Gina si era fatta vedere; del resto, era molto probabile che avesse detto sì solo per tenerlo tranquillo, per evitare che l’aspettasse sotto casa o, peggio, che riuscisse a infilarsi nell’appartamento che divideva con altre due studentesse (una mora di Pescara e una napoletana rossiccia e timida), con tutto quello che potevamo facilmente immaginare.

  Ferruccio, studente barese di ingegneria, che dopo tre anni aveva sì e no dato due esami, si aggirava per le stanze della casa con i rossi e ricci capelli scarruffati e l’accappatoio rosa slavato sghignazzando come se provasse un godimento sadico a sapere Lele in sofferenza sentimentale, quando invece tutti sapevamo che per lui stravedeva, e che l’unico motivo per il quale continuava quella recita universitaria era proprio la presenza del nostro comune amico, incomprensibile e sin troppo ostinato, talvolta, ma generoso, attento e specialmente paziente coi dolori, veri o immaginari, degli altri, e sempre pronto a porgere orecchio a una tua storia, al resoconto di una vicenda del passato, ad appassionarsi alle figure dei protagonisti come se li conoscesse e potesse, allo stesso titolo del narratore, criticarne un particolare aspetto del carattere o prevederne una frase, una decisione, un rifiuto o una svolta favorevole.

  “Mi piacerebbe conoscerlo questo Antonio. Verrà a trovarti qui a Roma?” Era questa, più o meno, la frase con cui prendeva la parola (a cambiare, ogni volta, era il nome del protagonista) dopo qualche secondo di silenzio, per dire alla sua maniera sorridente e ammirata quanto l’aneddoto di Mario, o di Ferruccio, o più raramente mio lo avesse incuriosito, stimolato o semplicemente divertito.

  Ferruccio, sarcastico, istrionicamente sarcastico, beffardo per affetto e buffoneria, lo prendeva in giro, gli diceva che era un boccalone, un tonto, un letterato svanito buono solo a collezionare aggettivi e versi di poeti lunatici come lui. Lele stava zitto, lo guardava dritto negli occhi con quel suo sguardo mite ma sottile, indagatore, e poi scoppiava a ridere, trascinandosi dietro Ferruccio, me e Mario, che magari proprio in quel momento stava rabboccando i bicchieri quasi finiti o bisognosi di una giunta.

  Ma poi, a tradimento (un tradimento a dire il vero annunciato, aspettato da ognuno), chiedeva: “E il prossimo esame quando lo dai, Lele?” “Aspetto te” rispondeva il letterato all’aspirante ingegnere, che incassava senza fiatare, fino alla volta successiva, di lì a pochi giorni, quando le parti si sarebbero invertite e l’ultima parola sarebbe toccata a Ferruccio, che l’avrebbe accompagnata con una risata ancora più rauca e oscena.

  Ferruccio diceva di sapere qualcosa che noi non sapevamo, ma che preferiva aspettare a dirlo. Mario replicava che non era vero, che l’unico a sapere qualcosa in grado di risolvere il mistero era Lele; o Gina. Io ero d’accordo con Mario. Solo chi non conosceva Ferruccio come lo conoscevamo noi poteva credere che uno così fosse capace di tenersi in pancia un segreto su Lele per più di due ore, ed erano passati tre giorni senza che avesse detto una parola, o lasciato cadere un indizio capace di illuminare i fatti di quella sera.

  “Parla tu, allora”, rilanciava Ferruccio, scocciato e volpino, mentre si accendeva la terza o quarta sigaretta della mattina. Io avrei anche potuto parlare, ma per dire soltanto quel poco che sapevo, più l’idea che mi ero fatta su come potevano essere andate le cose; basata, quest’idea, più su sensazioni e, per dire così, prove visive che su segni sicuri o parole dette dal protagonista della vicenda, dallo stesso Lele; il quale nel primo pomeriggio del giorno seguente era partito per Arezzo con uno zaino stipato di roba: biancheria da lavare, soprattutto, più un romanzo di Paolo Volponi, Memoriale, e uno dei testi che doveva studiare per l’esame di storia medievale che avrebbe dovuto sostenere tra due mesi.

  Ricordo bene come e quando c’eravamo conosciuti, per poi, dopo qualche tempo, e per una di quelle concatenazioni che col senno del poi si leggono come il frutto obbligato di un destino scritto, finire a condividere un appartamento di due stanze, più bagno cucina e sgabuzzino sulla Tuscolana, due fermate di metropolitana prima dei teatri di Cinecittà, nel cui bar una mattina prendemmo un caffè accanto a Marcello Mastroianni, che mi fece l’occhiolino divertito dopo una battuta ironica scambiata col barista romano con baffetti e farfallino blu che lo chiamava sor Marcè.

  Avevo finito il servizio militare tre mesi prima, a novembre, e subito dopo le feste di fine anno ero partito per la capitale col giovanile proposito di studiare e scrivere: per i giornali, e per me stesso. Un amico del paese che ci stava da un anno per studiare psicologia mi aveva ospitato per un paio di mesi nel suo essenziale monolocale dalle parti di piazza Vittorio, non ancora diventata il centro d’irradiazione della comunità cinese, ma già vivace, popolare, multietnica. Poi ero passato a una pensione di piazza Indipendenza, a meno di duecento metri dalla stazione centrale: una stanza con le pareti scrostate, un bagno microscopico e una branda pieghevole sotto l’unica finestra che dava sul buio perenne di un cosiddetto “pozzo luce”.

  Ci tornavo solo per dormire, da mezzanotte alle otto del mattino; il resto del tempo lo passavo a spasso per la città, o all’università: in mensa, al caffè degli studenti, sulla panchina all’ombra di Villa Borghese o di Villa Doria Pamphili, già abitazione privata di Mussolini negli anni del fascismo al potere e ora sede della facoltà di lingue. Non conoscevo ancora nessuno, e anche l’amico che mi aveva ospitato i primi tempi lo vedevo di rado. Eppure è a lui che devo il primo incontro con Lele; fu lui a presentarci una mattina caffetteria di piazza Esedra, dove aveva dato appuntamento a Mario, collega della facoltà, per uno scambio di appunti di una lezione di “psicologia dell’età evolutiva” che il mio amico aveva mancato non so più per quale motivo.

  Lele doveva quindi già essere amico o buon conoscente di Mario, anche se credo di non aver mai saputo in che modo i due si fossero conosciuti. Dico credo, ma dovrei dire che l’avevo di certo saputo, ma che, non saprei dire quando, l’avevo scordato, e quella conoscenza era diventata, in virtù di una alchimia esistenziale che traduce i fatti in una sorta di leggenda fuori dal tempo, proprio una leggenda privata o un aneddoto fantastico che per rispetto e incanto preferiamo lasciare libero dal chiuso contorno di un resoconto definitivo.

  Lele mi piacque subito. O così mi pare ora, ripensandoci. Certo cominciò allora, quella mattina di febbraio, in quel caffè, la lunga conversazione che doveva durare per almeno due anni, con brusche interruzioni dovute perlopiù alla sua suscettibilità, o alle sue fughe incomprensibili e improvvise, oppure, più raramente, per fortuna, alle crisi depressive che lo ammutivano per giorni, talvolta per una settimana. Mi disse che studiava lettere e che voleva fare lo scrittore. O meglio: che voleva scrivere, ma che non era sicuro di avere il talento necessario. Mi chiese se anch’io studiavo e gli risposi che mi ero trasferito a Roma perché volevo fare il giornalista, senza però smettere di leggere. Lui mi guardò serio e disse: “Bene, l’importante è cominciare. L’importante è scrivere”.

  Meno di un mese dopo quella chiacchierata alla caffetteria Tartufo di piazza Esedra, Lele e io dividevamo una delle due stanze dell’appartamento sulla Tuscolana, quella che compare subito al principio di questa storia; l’altra era occupata da Mario e Ferruccio; tra le due un corridoio lungo e largo con due riproduzioni di Monet alle pareti, un divano beige e due poltrone: bianca e comoda una; verde e scomoda l’atra.

  Aspettando il ritorno di Lele, o perlomeno una qualche notizia certa che lo riguardasse, vale a dire comunicata dalla sua viva voce a uno della casa, ognuno di noi si era messo a svolgere una sua personale indagine. O almeno presumo ora, a distanza di molti anni dai fatti, quindi con l’ovvia e scusabile incertezza e inevitabile approssimazione dovuta al molto tempo trascorso da allora, per non parlare della deliberata invenzione nei punti in cui mancano i dettagli, le parole esatte, o quando un dubbio mi assalirà a proposito della corretta cronologia dei fatti o sugli stessi fatti.

  Così, ad esempio, non sono sicuro se Gina parlò prima con Ferruccio o con me. Per non dire che in tutta franchezza io la mano sul fuoco su quanto ci raccontò Ferruccio non la metterei, ammesso ma non concesso che l’abboccamento tra lui e Gina ci fu. A me Gina disse poco, quasi niente. E quel poco me lo disse solo perché, insolitamente caparbio, la tenni stretta tra il tavolo e la sedia della birreria dove, dopo un panino col salame piccante e un boccale da venti, cominciai a interrogarla come in un terzo grado della polizia.

  Sì, c’era andata all’appuntamento. L’aveva accompagnata in macchina Riccardo, un ex fidanzato diventato presto caro amico e confidente. E poi? Avevano parlato? Sì. Ma Lele, Lele l’aveva vista arrivare con la macchina di Riccardo? Perché se l’aveva vista in macchina con Riccardo, Lele l’avrebbe piantata lì e se ne sarebbe andato. Come poteva esserle saltato in mente di farsi accompagnare da Riccardo? Gina aveva alzato le spalle, proprio come fanno i bambini quando non sanno cosa dire.

  Gina era una bambina. E il più delle volte non sapeva quel che faceva. Soprattutto nei rapporti con gli uomini. Era leggera? Si potrebbe dire così, ma non sarebbe del tutto esatto. Gina era distratta. Oppure: indifferente. Si concedeva come in assenza di volontà, e con altrettanta assenza di volontà scivolava via, senza nemmeno accorgersi di farlo. Era, per dirla tutta, la donna da cui Lele avrebbe fatto meglio a stare a debita distanza. Mario aveva provato a dirglielo, una sera, all’uscita dal cinema Mignon, dove avevamo visto un film di Kusturica; mi pare fosse Ti ricordi di Dolly Bell?, ma non potrei giurarlo. Senza scomporsi, Lele lo aveva ringraziato per il consiglio negando qualsiasi interesse per la ragazza. “Meglio così”, aveva detto Mario, dandogli una pacca sulla spalla.

  Ferruccio non ci aveva neppure provato. Non voleva immischiarsi, diceva, e poi era giusto che se la vedesse da solo, che imparasse a sue spese quanto può essere deludente la vita. Quanto a me, ero, nella circostanza, il meno adatto a farlo, per via di un equivoco che mi sforzai in tutti i modi di chiarire, e che aveva a che fare proprio con Gina, che una sera, bevuto un bicchiere di troppo, era stata con me un po’ troppo affettuosa, forse giocando a ingelosirlo o forse soltanto brilla e bambina come sempre e perciò incapace di calcoli o strategie.

  Era probabile che Lele l’avesse vista arrivare con la Panda di Riccardo. Solo probabile. Lei non se la sentiva di affermarlo con assoluta sicurezza. Pioveva, era buio, era impegnata a evitare le pozzanghere e a non farsi strappare di mano l’ombrello dal vento (l’ombrello giallo regalo di Lele).

  A Ferruccio Gina aveva invece detto di essere andata a piedi; ovvero con l’autobus fino alla fermata più vicina e poi a piedi per i restanti trecento metri circa, e di non averlo trovato. Aveva aspettato una quindicina di minuti sotto la pensilina di incerata della pizzeria, sicura che sarebbe arrivato e meravigliandosi del ritardo, dato che Lele era un vero maniaco della puntualità. Alle otto e venti, otto e mezza massimo se n’era tornata a casa, maledicendolo.

  Mario, interrogato sulle due versioni, ci disse che secondo lui non era vera né l’una né l’altra. “Credi che siano entrambe false?”, gli chiesi. “No”, mi rispose; “sono entrambe per metà vere e per metà false”. Dissi che non era possibile, e lui allora mi spiegò quello che intendeva dire. “Vedi”, disse, “io penso che Gina si stia divertendo a confondere le acque. Lele all’appuntamento ci è andato, ma quando l’ha vista arrivare con Riccardo si è eclissato. Se conosci Lele come lo conosco io, non puoi avere dubbi: li ha visti ed è sparito”.

  Dovevo ammettere che il ragionamento di Mario non faceva una grinza: vederla scendere dalla Panda di Riccardo e decidere di andarsene dev’essere stato tutt’uno. Con tutti, tranne che con Riccardo, del quale era geloso più che di ogni altro che girasse attorno a Gina, alla quale i corteggiatori non mancavano di certo.

  Era infatti lui la causa dell’ennesimo litigio tra i due; Riccardo, che per Lele non aveva ancora del tutto mollato l’osso, con la complicità di Gina, per la quale le rotture non erano mai definitive, o così sembrava. Ferruccio però teneva il punto della sua versione con una fermezza inconsueta, dato che ci aveva abituati a brusche virate e a continui cambi di versione su qualunque argomento, racconto o convinzione, più interessato a stupire e intrattenere che ad affermare con la forza degli argomenti una tesi o una personale visione.

  E dunque, che certezze avevamo? Eravamo certi che Lele era ad Arezzo da tre giorni; che la sera dell’appuntamento pioveva; e che…Cos’altro? Ma, diciamo per dire, e non solo per dire, chi se la sarebbe sentita di giurare che Lele si trovava da tre giorni ad Arezzo dai genitori? E ancora: eravamo proprio sicuri che la sera dell’appuntamento, all’ora dell’appuntamento (le otto) pioveva? E qual era il giorno dell’appuntamento? Sabato. Sabato tredici marzo. Su questo non c’erano dubbi. O almeno non ce ne furono la prima settimana. Dopo la quale le cose cominciarono a cambiare, e nessuno dei tre era più sicuro di niente.

  Ma intanto senza Lele ci sentivamo spaesati. O forse sarebbe meglio dire che ci sentivamo orfani. Orfani di un amico, di un compagno di bevute, di un sodale affidabile che con noi condivideva odi, rabbie e insofferenze, anche se poi, va detto, lui ne aveva di personali che nessun’altro condivideva, neppure Ferruccio, che si sforzava di imitarlo in ogni atteggiamento o pregiudizio quanto più lo criticava, lo sfotteva, come per un bisogno di riequilibrio o un’implicita, e pubblica, manifestazione di indipendenza.

  Aspettavamo. Senza dircelo vivevamo in attesa del suo ritorno o di una telefonata, cercando, per quanto possibile, di non alterare l’ordine delle giornate, le riunioni serali nella grande cucina, le cene in trattoria, il film settimanale al Mignon, le passeggiate la domenica mattina al parco di Monteverde, gli scherzi e le battute che perimetravano e scandivano una convivenza diventata molto presto amicizia.

  Ferruccio continuava ad alzarsi alle undici e a girare in vestaglia per la casa fumando e monologando per un’ora, fino a quando di solito compariva Ida, la fidanzata paziente che lo convinceva a lavarsi e vestirsi. Lui per po’ recalcitrava, fingeva di non volerne sapere, ma quando anche Mario lo lasciava solo in cucina cedeva e in dieci minuti era pronto a uscire, con Ida già sulla porta che gli tendeva la mano imbronciata.

  Mario, se non aveva una lezione da frequentare, si chiudeva in camera o restava a tavolo da cucina a studiare, con la matita in mano e l’indice della mano destra sulla tempia che si muoveva in cerchi concentrici e salendo piano sino in cima per poi ridiscendere con il medesimo movimento rotatorio. Ogni tanto si fermava, si toglieva gli spessi occhiali da miope e, piegando il collo all’indietro, restava qualche minuto a guardare i vetri della finestra che dava sul giardinetto condominiale, ma senza vedere nulla. Fantasticava, forse. Si riposava.

  Io intanto avevo trovato un lavoretto nella redazione di una rivista dedicata ai problemi della giustizia. Ero il segretario di redazione, e tutti i pomeriggi alle due prendevo la metro alla fermata Giulio Agricola e scendevo a piazza di Spagna, da dove a piedi raggiungevo gli uffici della rivista che si trovavano in una palazzina liberty di via del Babbuino. Ci restavo fino alle sette, normalmente, tranne nei giorni ch precedevano la chiusura di un numero, quando il lavoro si faceva più frenetico e urgente e c’era bisogno che anch’io dessi una mano ai tre redattori del periodico.

  Imparai in fretta a fare i titoli, a leggere velocemente, a tagliare i pezzi quando non riuscivamo a farli stare nella gabbia, a correggere le bozze con attenzione e metodo. Era solo l’inizio, ma ero contento. Mi sembrava di aver cominciato bene, di avere avuto fortuna a trovare quel posto di segretario in un giornale fatto da persone amichevoli e competenti che mi volevano bene e mi insegnavano il mestiere.

  Un paio di mesi dopo l’inizio del lavoro alla rivista pubblicai due brevi recensioni nella pagina culturale di un quotidiano di sinistra. Avevo portato i due pezzi sicuro che me li avrebbero gentilmente rifiutati prima ancora di leggerli, e invece il redattore con cui parlai mi disse che potevo lasciarli sulla sua scrivania e che se erano buoni li avrebbe pubblicati. Tre giorni dopo gli articoli erano in pagina, uno accanto all’altro.

  Avevo il giornale davanti, ancora a tre passi dall’edicola dove l’avevo comprato, e nonostante vedessi il mio nome ai piedi del primo (sotto l’altro c’erano solo le iniziali) quasi non ci credevo. Avrebbe potuto essere l’inizio di una carriera, ma non lo fu. Allora però non lo sapevo e l’unica ombra su quella giovanile felicità era l’assenza di Lele, il suo silenzio che si faceva ogni giorno più incomprensibile e lungo.     

  Mancavano due settimane alle vacanze di Pasqua. Il tempo, dopo una settimana di sole già primaverile, era di colpo peggiorato lunedì sette aprile. Prima una specie di scirocco tiepido, a sbuffi intermittenti, poi, verso le cinque, tramontana umida e via via sempre più fredda. Verso le otto venne il temporale potente e lungo che atterrò due alberi nella piazzetta del mercato e ci ruppe una persiana che non avevamo fatto in tempo ad agganciare al muro. In cucina eravamo io e Mario, a fumare e finire lentamente quel che rimaneva della bottiglia di Chianti che avevo portato dal lavoro la sera prima.

  Ferruccio era da Ida, almeno questa era la versione ufficiale data a Mario, ma da un pezzo lo si vedeva poco, e ogni volta che ci trovavamo in casa tutti e tre smaniava per un rovello taciuto, per una spina segreta che cercava di nascondere sotto la solita ironia e le freddure già usate. Doveva entrarci Lele, e forse anche qualcos’altro: Ida, con cui continuava a stare più per puntiglio che per amore; l’impasse universitaria, un’insoddisfazione più profonda per una decisione che non riusciva a prendere…

  Fu giusto all’ultimo bicchiere che Mario disse che Ferruccio aveva deciso di andare ad Arezzo entro due giorni se Lele non si fosse fatto vivo. Scossi la testa, bevvi un sorso e dissi che forse era il caso di lasciarlo in pace, se era quello che voleva. Mario si disse d’accordo, capiva però il punto di vista di Ferruccio, così legato a Lele da poterlo quasi considerare un compagno. Se capisci cosa intendo, aggiunse. Lo capivo. E in effetti, di questo si trattava: di un legame sentimentale di un tipo particolare, nel quale la componente dell’amicizia si carica sino al punto da assumere i tratti della dipendenza, a volte reciproca, a volte, come nel nostro caso, unilaterale, in cui, cioè, una delle due parti mostra di aver bisogno più dell’altra del nutrimento psicologico che la presenza dell’amico rappresenta.

  “E se andassimo tutti e tre?”, disse Mario. Risposi che io non potevo essere della partita, ma che avrei dato il mio contributo cercando Gina, chiedendole di dirmi quello che sapeva, se qualcosa sapeva. Così l’indomani uscii presto e andai a cercare Gina a casa sua, in un bel vicolo di cui non rammento più il nome che mette in collegamento piazza fontana di Trevi e via del Tritone.

  Non c’era. Allora andai alla facoltà, risalendo via Barberini per puntare su piazza Indipendenza, superando di buon passo l’Esedra senza neppure fermarmi cinque minuti a una delle bancarelle di libri usati dove avevo fatto molti acquisti. La trovai quasi subito in un capannello al pianterreno della facoltà, impegnata in una conversazione con un capellone che si sbracciava e alzava l’indice a rafforzare l’affermazione, a sottolinearla. Mi vide girando un momento la testa e si interruppe. Fece un gesto con la mano al barbuto e mi venne incontro sfoggiando un sorriso allegro che mi rianimò. Ma l’allegria e il sorriso sparirono in un lampo quando seppe perché la stavo cercando.

  Mi disse senza giri di frase che di Lele ne aveva fin sopra i capelli, che quelli come lui è meglio se ne stiano da soli, che a stargli troppo dietro si finiva al manicomio. Dissi che tutto questo doveva averlo capito presto, e che l’averlo capito non le era servito a molto. “Sì, hai ragione”, ammise. Ma mi piaceva. È un tipo curioso. E poi lo sai com’è fatto: si incaponisce. È un masochista, si rifiuta di capire; è un fanatico, lo sai”. Aveva ragione, ma non glielo dissi. Le dissi invece che Ferruccio voleva andare ad Arezzo, anche se senza l’indirizzo sarebbe stata un’impresa trovarlo e vederlo, ammesso che accettasse di farsi vedere, una volta stanato.

  “E tu, hai notizie?”, domandai. Aveva ricevuto una lettera qualche giorno prima, mi confidò. Volevo sapere cosa diceva nella lettera, almeno la parte che si poteva dire, quella che non riguardava l’intimità inviolabile della loro relazione. Che di Roma ne ha abbastanza, rispose brusca Gina, allungando la bocca in un sorriso che non mi aspettavo.

  “Anche di noi?” “Soprattutto di voi”, rispose, tornando dal barbuto, che non si era mosso e ora, intercettando il mio sguardo mi faceva un saluto non troppo convinto mostrandomi la palma larga di una mano.

  Uscii sulla strada rimasi per un po’ indeciso su quello che dovevo o avevo voglia di fare. Poi attraversai la strada e arrivai sino all’angolo, dove c’era un locale che faceva degli eccellenti frullati. Entrai, mi sedetti e chiamai il cameriere. Bevvi il frullato con calma e tornai alla facoltà. Girando e guardandomi attorno capitai in un’aula dov’era da poco cominciata una lezione. L’argomento era l’elaborazione del lutto secondo Freud e secondo altri, tra cui un francese del quale non avevo mai sentito parlare. Mi piacque e rimasi una ventina di minuti, prendendo anche qualche appunto su un taccuino a righe che mi portavo sempre dietro.

  Scorsi Gina in una delle prime file; guardava con attenzione il professore cinquantenne famoso in quei mesi per i libri sul desiderio e il tradimento e l’abbandono, e da dove ero seduto riuscivo a vederne il profilo: avrei giurato che stesse sorridendo, alla sua maniera storta, indiretta, come a prendere le distanze dal suo stesso sorriso. 

  Volevo aspettarla per incalzarla ancora, tornare a interrogarla sulla sera dell’appuntamento, ma cambiai idea, non so bene perché, per stanchezza, probabilmente, o un improvviso senso di impotenza.

  La sera dissi a Ferruccio della conversazione con Gina. Fece spallucce e disse che non ci credeva, che se Lele non tornava la colpa era sua, di Gina, e che lui l’indomani sarebbe partito per Arezzo, anche da solo. Gli feci notare che non aveva l’indirizzo, e che comunque niente gli garantiva che Lele avesse voglia di vederlo. Non mi diede soddisfazione; bevve un bicchiere d’acqua e lasciò la cucina annunciando che usciva per una camminata rigenerante.

  La mattina dopo entrai nel solito bar per un caffè e ci trovai Ferruccio. Mi disse che non partiva più, che quel che avevo detto la sera prima gli aveva dato da pensare, e che in effetti era difficile che riuscisse a trovare Lele con in tasca solo il nome del quartiere. “Ma con questo non sto affatto dicendo che ho deciso di rinunciare”, puntualizzò. Uscimmo dal caffè e camminammo verso Cinecittà sul lato destro del vialone presidiato da una serie interminabile di condomini. Stava alla mia sinistra, molto vicino, con la testa china in avanti e la sigaretta tra le dita della mano destra, perciò dovevo stare attento a non farmi bruciare una manica del cappotto. Stava zitto; aveva gli occhi tristi e un’aria pensierosa. Per tirarlo su dissi una cosa alla quale non credevo: “Vedrai che torna. Non ci sarà bisogno di andare ad Arezzo. O meglio, ci andremo con lui, in gita”.

  Ferruccio fece una risata sforzata, rauca, nella quale si sentiva una disperazione che mi inquietò. Nel timbro insolito di quella risata, avrei capito più avanti, c’era una dichiarazione di resa all’inevitabile, ed era forse anche la sua maniera di prendere atto che le cose prima o poi finiscono e che a nulla serve lottare, accanirsi, ostinarsi a farle durare. “E in che modo, poi? E Ida?”, dissi a un certo punto. “Ida”, ripeté lui. “Ida”. Diede una rapida occhiata a quel che rimaneva della Linda che stava fumando, fece un tiro e lanciò lontano il mozzicone, che per poco non finì sul vestito azzurro di una ragazzina bionda che usciva proprio in quel momento da una profumeria.

  A metà maggio, quando ormai avevamo smesso di sperarci, Lele tornò. I saluti furono imbarazzati, e l’allegria della serata in trattoria somigliava solo alla lontana a quella di una volta. Ferruccio, ammirevole e patetico, rispolverava i suoi vecchi numeri, sperando di agganciare al gioco Lele, che sembrava avere poca voglia di scherzare.

  “Torno a casa”, disse, senza guardare nessuno. “Sono venuto solo per pagare quel che devo pagare e per prendere le mie cose. La commedia è finita, per quanto mi riguarda”.

  Mario fu l’unico che tentò una replica del tipo “ma che dici, pensaci, hai ancora tempo, non sei così vecchio…” (Lo aveva detto lui di essere troppo vecchio per fare lo studente, che il tempo era scaduto). Io e Ferruccio restammo zitti, senza nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia, sapendo bene che non c’era nessuno capace di far cambiare idea a Lele. Partì senza salutare, forse “chiuso nella notte” per timore di non riuscire a farlo. Sul mio comodino lasciò un foglio. C’era scritto: “L’imperatore consiglia: ‘Accetta senza orgoglio, cedi senza lottare’”.

  Ma devi essere l’imperatore, pensai, strappandolo in due parti quasi uguali.


foto: T. Siracusa

Di Bac Bac