di Tano Siracusa

Una sera, ieri sera, a Santa Crroce, al Rabato. Una piccola folla di agrigentini sosta nella grande piazza davanti la chiesa di Santa Croce, assiste a uno spettacolo, prima una danzatrice, poi una rievocazione teatralizzata di quel 19 luglio del ’66, quando un frana mise in fuga gli abitanti del quartiere arabo anche nel nome segnando l’inizio del suo abbandono.
Ne ripercorre le vie, le scalinate, gli slarghi ormai deserti guidata da Beniamino Biondi, che della frana ricorda l’antefatto, il dissennato carico di cemento, i palazzoni alti anche venti piani edificati sugli ipogei scavati dai greci, sulla collina tufacea, diaframma di cemento armato che aveva spezzato la continuità anche visiva fra le due città, quella classica e la città medievale, promuovendo, nel quindicennio di euforia imprenditoriale che precede la frana, l’avvento di una modernità di scarto.
C’è questa piccola folla, ieri convocata da Oltre Capitale, che ogni tanto si raccoglie al Rabato, nel suo silenzio, fra i conci di tufo arenario che ancora compongono le case disabitate, le orbite delle finestre spesso sfondate, gli archi, che si accendono d’oro al tramonto sulla facciata della chiesa, sui conci di tufo caduti sotto le mura sbrecciate nei crolli che si sussuegono, nei percorsi transennati, nobili e osceni, disfatti e sfarzosi, come per una delirante messa in scena.
Rabato è anche questo, il trionfo del tufo, di questa pietra morbida, sabbiosa, che sa di mare, delle sue avventure e delle sue disgrazie, della fascinazione e della paura del mare che scintilla oltre la chiesa dell’Addolorata, attorno al Porto.
Un ‘altrove’ della città murata, di Girgenti, quella che i contadini di Rabato attraversavano con le loro bestie, per necessità o per soddisfazione di oltraggio.
Una piccola folla di agrigentini da sessanta anni torna fra queste macerie a misurare una distanza crescente dal quartiere in disfacimento, a riconoscere e rievocare nella trama fitta del suo reticolo viario le tracce di una comunità dispersa. Il trapestio dei passi, il vociare dei bambini per strada e nei cortili, l’affaccendarsi delle donne nelle botteghe, gli asini degli ambulanti, le loro abbanniate, il suono improvviso delle campane.
Ieri Beniamino Biondi ha ricordato Pirandello, la sua estraneità alla Girgenti borghese, anche se è attraverso le pagine di suo padre, Settimio Biondi, che Rabato, la città fuori le mura, è stata consegnata alla letteratura, restituita e trasfigurata in una Macondo siciliana, storica e prodigiosa, dove il figlio di un contadino imparava le lingue classiche, il latino e il greco fino a parlarle e scriverle impeccabilmente, dove preti coltissimi fomentavano l’alterità del luogo, la sua eccentricità islamica ed ebraica e prima ancora bizantina, un’identità orgogliosamente diversa, eruditi appassionati al culto esorbitante di san Calò, il Santo dei contadini, il Santo Nero.
Il Municipio, il cuore dell città, era e rimane a poche centinaia di metri.
Stasera Santa Croce e Rabato torneranno nel silenzio e nel buio. A segnalare un resto di abitanti resteranno pochi gatti diffidenti e qualche vecchia auto posteggiata.
Della serata resteranno le fotografie e i video come questo. In attesa che la piccola folla cresca fino a raggiungere il Municipio.