di Vito Bianco

Casa sul mare

Il viaggio finisce qui:

nelle cure meschine che dividono

l’anima che non sa più dare un grido.

Ora i minuti sono uguali e fissi

come i giri di ruota della pompa.

Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.

Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia

che tentano gli assidui e lenti flussi.

Nulla disvela se non pigri fumi

la marina che tramano di conche

i soffi leni: ed è raro che appaia

nella bonaccia muta

tra l’isole dell’aria migrabonde

la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce

in questa poca nebbia di memorie;

se nell’ora che torpe o nel sospiro

del frangente si compie ogni destino.

Vorrei dirti che no, che ti si appressa

l’ora che passerai di là dal tempo;

forse solo chi vuole s’infinita,

e questo tu potrai, chissà, non io.

Penso che per i più non sia salvezza,

ma taluno sovverta ogni disegno,

passi il varco, qual volle si ritrovi.

Vorrei prima di cedere segnarti

codesta via di fuga

labile come nei sommossi campi

del mare spuma o ruga.

Ti dono l’avara mia speranza.

A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:

l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode

Che rode la marea con moto alterno,

il tuo cuore vicino che non m’ode

salpa già forse per l’eterno.

(da Ossi di seppia, Piero Gobetti editore 1925) 

  Montale, poeta di movimenti immaginari, di invidie liriche per chi ha un innato “talento per la vita” e di notazioni d‘impietosa precisione (una precisione che gli viene da Pascoli) alle prese col tema del viaggio; ma, appunto, un viaggio senza moto; un viaggio che è già finito ancora prima di cominciare, perché si svolge tutto nello spazio segreto e inquieto dell’interiorità: “Il viaggio finisce qui”. E poi, dopo i due punti, due versi che spesso si ricordano: “nelle cure meschine che dividono/l’anima che non sa più dare un grido (due endecasillabi, il secondo ipermetro con sinalefe che fonde dare e grido, che nell’ultima sillaba riprende il “do” di dividono prolungandone in eco il valore fonosimbolico).

 Tutto il componimento ha il tono dell’ineluttabilità, ed è scandito da un ritmo cadenzato, da andante cantabile, che sottolinea dall’inizio alla fine il senso di stoica rassegnazione del narratore-testimone, il quale però in un verso della penultima strofa ci offre una strana via d’uscita: “forse solo chi vuole s’infinita”, un modo di affermare, pur dubitando, che la volontà basti a prolungare in qualche modo nel tempo infinito l’esistenza terrena;  “e questo tu potrai, chissà, non io”, continua il testimone di una saggezza che serve più alla poesia che alla vita a cui si apre l’interlocutrice. Ma è meglio non farsi illusioni: “Penso che per i più non sia salvezza”, dice il nostro narratore.

  Salvezza non c’è per la maggioranza di noi, ma quelli che invece ce la fanno, quale salvezza possono conquistare? Una salvezza che consiste in una nuova vita oltre questa che hanno vissuto? Oppure si tratterebbe di un altro tipo di salvezza, per esempio una salvezza-sopravvivenza di tipo vitalistico, che sarebbe racchiusa nel progetto di vivere fino in fondo il proprio personale destino, e così intensamente da lasciare, per così dire sulla carne della vita, la propria impronta unica e indelebile?

  È probabile però che Montale abbia in mente anche altro, pur se questo altro non è reso esplicito, e all’evidenza è posto il problema della durata: “s’infinita” e perciò si “salva” solo chi può volerlo, ovvero solo chi ha ricevuto in dono il talento di riscrivere sub specie estetica le figure del cammino terreno, di trasformare l’esperienza nei segni incancellabili dell’arte, e così passare il “varco” e ritrovarsi “qual volle”.

  Dicevamo di un viaggio subito finito col primo verso; ora aggiungiamo che nulla sapremo del luogo di partenza, né dell’itinerario seguito dai viaggiatori. Ma come se non bastasse, al blocco del moto nello spazio corrisponde la stasi nella dimensione temporale: “Ora i minuti sono uguali e fissi”, minuti che vengono paragonati ai giri di ruota di una pompa dell’acqua. Al primo giro sale e “rimbomba”, al secondo cigola: “a tratti un cigolio”, parola gorgogliante con cui si chiude la prima strofa (sette versi) del componimento.

  L’ottava che segue riprende l’incipit, e fa credere per un momento che tutte le strofe si apriranno anaforicamente con il sintagma “Il viaggio finisce”, al modo di un refrain che imiti l’andare e venire del movimento marino, “gli assidui e lenti flussi”. Non sarà così: nella terza stanza entra in scena il “tu” del dialogo vero o immaginario, la famosa seconda persona montaliana intorno alla quale ormai avanti negli anni il poeta imbastirà una divertita ironia sulle fatiche critiche degli interpreti per svelare una precisa identità dietro l’opacità del pronome, diventato ormai “un istituto”, una sorta di marchio di fabbrica.

  Il terzo verso fa tornare uno dei temi dominanti di tutta l’opera di Montale: la possibilità sempre sperata che una qualche verità ci folgori anche solo per un istante, si mostri uscendo da dietro la cortina ordinata e impenetrabile del visibile. Ma, di nuovo, “la marina che tramano di conche/i soffi leni”, non “disvela” nulla, “se non i pigri fumi”, con la serie di magre “i” a illustrare graficamente il poco slancio vitale degli elementi. Si possono vedere, ma raramente, due grandi Isole, la Corsica e la Capraia, tra “l’isole dell’aria migrabonde”, uno splendido modo di nominare le nuvole, le uniche cose che davvero si muovono incessantemente spinte dal capriccio dei venti; “nella bonaccia muta”, nella stasi totale, nell’aria di quaggiù immobile. 

  Dopo lo stacco entra in scena la domanda cruciale, esistenziale e metafisica a un tempo, sullo sfondo di una speranza religiosa in una vita oltre la morte e il tempo. “Tutto vanisce”, restando non altro che “questa poca nebbia di memorie”?

  È qui, nel giro caduco dell’orizzonte terreno, nell’ora che intorpidisce (“che torpe”) che si conclude ogni umano destino? Il testimone vorrebbe, e noi con lui, rispondere di no, che si avvicina “l’ora che passerai di là del tempo”.

  Poi, bruscamente, dopo il punto e virgola, leggiamo: “forse solo chi vuole s’infinita,/e questo tu potrai, chissà, non io”. Se, come abbiamo visto, “per i più non sia salvezza”, qualcuno può, in virtù di una speciale qualità spirituale, o di una rara fede nella propria essenza naturale sovvertire “ogni disegno”, un disegno di sparizione, di oblio, e ritrovarsi in un altrove secondo il desiderio della propria fedele volontà (fedeltà e volontà che reciprocamente si sostengono).

  Al narratore stanco non rimane che indicare alla compagna la “via di fuga”, benché labile “come nei sommossi campi/del mare spuma o ruga” (gli ultimi due termini in perfetta assonanza) e donarle una avara speranza “in pegno al tuo fato”, per mitigarne l’’eventuale inclemenza: “che ti scampi” (in rima distanziata con i “sommossi campi”). Nella bellissima quartina finale a rime alternate il “viaggio” diventa “cammino” per produrre una rima al mezzo con  “vicino” (“il tuo cuore vicino che non m’ode”, che segnala una dolorosa distanza di sentimento) e i due personaggi della poesia approdano dove sono sempre stati; ma l’altra, ormai sorda alle parole del testimone-poeta, comincia un suo solitario viaggio e salpa “già forse per l’eterno”, l’altro nome della salvezza.

(Estratto da L’orecchio sulle righe. In ascolto dei poeti. Inedito)

Di Bac Bac