di Tano Siracusa

“Sono proprio io, ma diventato pazzo”.
Van Gogh avrebbe commentato così il ritratto realizzato da Gauguin durante la loro tormentata convivenza ad Arles, iniziata nell’ottobre del 1888.
Nel quadro Van Gogh sta dipingendo i girasoli, e circa un mese dopo, il 23 dicembre, si sarebbe tagliato una parte dell’orecchio destro manifestando per la prima volta una pulsione autolesionistica che si sarebbe ripetuta negli anni successivi.
Come se l’amico-rivale Gauguin, il pittore che preferiva dipingere di “immaginazione” piuttosto che dal vero, avesse colto dell’olandese quella entelechia che Leonardo Sciascia riconosceva in alcuni ritratti fotografici di letterati famosi raccolti nel volume Ignoto a me stesso.
Titolo suggestivo e programmatico quello del libro (ormai introvabile) che attribuiva al fotografo il potere di disoccultare nel presente il futuro, nell’attimo fotografico il destino di una persona.
Il testo di Sciascia ha fatto scuola.
Tuttavia il vantaggio del fotografo rimane dubbio proprio quando il tentativo è di cogliere e rappresentare l’essenza del soggetto fotografato, la sua personalità profonda, l’altro ignoto che lo abita.
Un dubbio relativo anche al diverso rapporto con il tempo che il fotografo e il pittore stabiliscono, con la durata esecutiva del ritratto.
Per quanto frutto di una posa – ai tempi di Nadar e Degas lunga anche diversi secondi – la fotografia è comunque legata al tempo breve della ripresa, perseguendo fin dall’inizio un’istantaneità tuttavia chimerica, poichè il tempo è un flusso non una successione di istantatanee separate. E durante il tempo della ripresa quasi sempre il soggetto, anche se non è in posa, sa di essere fotografato, di essere dentro lo sguardo di un altro che trasformerà un istante e un volto già passati, trascorsi, in una ineffabile e impossibile permanenza.
A differenza infatti di qualunque altra parte del corpo umano il volto di una persona non è mai identico a se stesso. La sua estrema mobilità, la sua costituiva impermanenza lo rendono inevitabilmente dissimile dalla rappresentazione fotografica, legata alla infinita divisibilità dell’istante.
A differenza del fotografo il pittore, per quanto condizionato da una posa, farà di questa inevitabilmente un punto di partenza, oltrepassando il dato visivo immediato e riuscendo a volte a cogliere l’entelechia, la durata esistenziale: un destino.
Nei ritratti realizzati da Van Gogh ai suoi conoscenti di Arles o di Parigi, ai rari modelli che aveva potuto pagarsi, il mimetismo fotografico viene travolto dalla deformazione espressionistica, e non soltatnto nell’uso del colore. D’altra parte l’olandese disprezzava il mezzo fotografico. Negli autoritratti, più di venti dall’86 all’89, il rapporto con il tempo della visione sembra molto più complesso.
Nei suoi autoritratti Van Gogh oltreché un modello sempre disponibile, un soggetto su cui cercare la definizione di uno stile personale, sembrava interrogare se stesso, spesso sulla soglia di una rivelazione, aggiungendo come un fotografo ogni volta una sfumatura diversa a quell’ignoto che dal quadro riestituiva lo sguardo.
Lo scontro con il francese era avvenuto in fondo su questo, sul dipingere dal vero (e in fretta) oppure ricordando, immaginando. Nel tempo o fuori dal tempo.
La pittura di Van Gogh era immersa nella visione, nel tempo e nella sua fugacità almeno dagli anni di Parigi, dove grazie al fratello Theo aveva avuto modo di frequentare e conoscere personalmente alcuni dei protagonisti della stagione impressionista.
La pennellata breve, la lezione di Seurat e Signac, ma soprattutto di Monet lo interessavano assai più della nuova pittura dei suoi giovani amici parigini, quelle figure piatte, contornate da una vistosa linea nera, simili a icone medievali che presto Gauguin ed Emile Bernard avrebbero sperimentato a Pont Aven.
Gauguin doveva chiudere gli occhi prima di dipingere: le sue donne bretoni o quelle delle isole erano sbalzate fuori dal tempo e dalla storia. Icone, simboli. Come negli autoritratti del francese che non si interrogava, ma rappresentava il suo altro conosciuto e trasfigurato.

La comune distanza dalla fotografia non è meno profonda della distanza artistica e umana che separava e legava i due pittori.