(Uomini e donne delle istituzioni caduti per mano mafiosa)

Diciamolo subito e con sollievo: è senz’altro una buona notizia che il capomafia Matteo Messina Denaro abbia concluso la sua trentennale latitanza e si trovi in galera, sottoposto al regime carcerario del 41 bis.

Si tratta di un criminale pericoloso, crudele, direi senz’anima. Un individuo capace, tra le tante atrocità di cui si è reso protagonista, di ordinare anche lo strangolamento e lo scioglimento nell’ acido del piccolo Giuseppe Di Matteo di appena 12 anni, reo di essere figlio di un pentito di mafia. Ecco una lampante smentita – ma si potrebbero citare tanti altri esempi di donne e bambini vittime innocenti di mafia –  a quei delinquenti che parlano di presunti codici di onore rispettati dagli affiliati a cosa nostra.

Detto questo, va sottolineato come le modalità dell’arresto e alcune scene costruite in questi giorni attorno alla sua cattura lascino qualche perplessità.

L’arresto 

Partiamo dal momento dell’arresto. Matteo Messina Denaro non è stato solamente il capo indiscusso della mafia più sanguinaria, dopo l’arresto di Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma è stato anche l’organizzatore e l’esecutore di omicidi efferati e stragi eseguite con tecniche sofisticate. Si è parlato di una sua capacità militare, di una vicinanza ai servizi segreti e a strutture coperte come Gladio. Si tratta quindi di un elemento criminale che ha sempre agito con grande efficienza e potenza di mezzi. È credibile che un individuo così esperiente nel fiutare il pericolo si rechi in una clinica senza mandare in avanscoperta un guardaspalle, senza avere vicino una scorta armata (visto anche i pericoli che un tale criminale affronta, anche in seno alla sua organizzazione malavitosa), che non si sia minimamente accorto di un esercito di 100 uomini che lo attendeva al varco? 

Era in possesso di documenti falsi, ma essendosi appropriato dell’identità di una persona reale, tale Andrea Bonafede, poteva provare a recitare il ruolo dell’incensurato vittima di un errore, di uno scambio di persona (ci provano tutti i delinquenti fermati dalle forze dell’ordine); invece, alla domanda del colonnello dei carabinieri che gli chiede le generalità, risponde subito serenamente di essere Matteo Messina Denaro. Quasi avesse un appuntamento al buio con una persona che ancora non conosceva, afferma “lei lo sa chi sono io?”. Come a dire: ha capito bene cosa deve fare? 

Chiarita l’identità del soggetto e avendo presente la sua pericolosità, ci si poteva aspettare che venisse circondato da carabinieri con il mitra spianato e subito ammanettato e reso inoffensivo, come è stato fatto con Totò Riina, con Giovanni Brusca e altri pericolosi latitanti. E invece no: niente manette, niente armi puntate addosso, niente tensione. Lo si accompagna su un furgone dei carabinieri, quasi a dargli un passaggio, senza alcuna particolare precauzione. Il colonnello dei carabinieri che ha eseguito l’arresto ha spiegato che non era necessario ricorrere alle manette e che, comunque, il regolamento non lo prevede. Non sono esperto di regolamenti delle forze di polizia, ma ho ben presente le immagini di altri arrestati. Per esempio, i ragazzi che manifestavano contro il TAV in val di Susa: strattonati, malmenati, manganellati e ammanettati. Eppure, non si trattava certo di pericolosi criminali, ma a loro evidentemente è stato applicato un altro regolamento. 

Da cittadino geloso dei propri diritti, mi rassicura che le forze di polizia agiscano con grande rispetto verso le persone private della libertà personale, a condizione però che questa sia una condotta standard, un trattamento  riservato a tutti e non solo ai potenti, soprattutto se sono pericolosi mafiosi. Nel caso di Matteo Messina Denaro, invece, ho avuto la sensazione di un di più di attenzioni e garbo non dovuti, non necessari e non opportuni.

Dopo l’arresto è filtrata l’affermazione di Messina Denaro secondo cui sarebbe stato trattato bene dai carabinieri. Ma come fa un criminale inviato subito al 41 bis a mandare messaggi all’esterno? E perché lo ha fatto? Doveva forse far sapere a qualcuno che tutto procedeva bene? A chi pensava di rivolgersi?


L’oracolo di Baiardo 

Circa due mesi fa, in una trasmissione andata in onda su La7, Salvatore Baiardo, ex autista e guardaspalle dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, capimafia del mandamento di Brancaccio, attualmente detenuti in regime di 41 bis, in modo sorprendente ed inquietante ha parlato delle gravi condizioni di salute di Matteo Messina Denaro e data per certa la sua prossima volontaria consegna alle forze dell’ordine, come esito prevedibile di una trattativa in corso con lo Stato. Baiardo metteva in relazione questa resa del capomafia allo Stato con un patto che prevederebbe la scarcerazione dei fratelli Graviano, attraverso una revisione della legislazione dell’ergastolo ostativo, che consentirebbe la liberazione anche dei mafiosi che non hanno mai collaborato con la giustizia. Per il momento la profezia, almeno per la prima parte, sembra essersi inverata. Resta da vedere se nei prossimi mesi avrà piena realizzazione anche la seconda parte.

La latitanza

Matteo Messina Denaro ha vissuto, almeno per gli ultimi anni della sua latitanza, a pochi chilometri dal suo paese d’origine, a Campobello di Mazara: un piccolo paese di circa 10.000 abitanti, dove tutti conoscono tutti. Il capomafia non viveva in una casolare isolato come Bernardo Provenzano, né rinchiuso nella sua residenza. Andava in giro, frequentava ristoranti e comprava vestiario, molto costoso e vistoso, delle più famose griffe di moda: al momento dell’arresto indossava abiti ed accessori per circa 50.000 euro. Una persona che va in giro con un abbigliamento così ricercato e caro non può non suscitare, in un paesino siciliano, la curiosità e l’interessamento degli altri, soprattutto direi delle forze dell’ordine. Possibile che nessuno, in particolare tra la polizia municipale e i carabinieri, si sia chiesto chi fosse questo facoltoso cittadino, che mestiere facesse, da dove provenisse tanta ingente ed esibita ricchezza? Certo non si può archiviare tutto con il ricorso alla categoria scontata e banale del siciliano che non parla perché antropologicamente omertoso e intriso di cultura mafiosa. E’ chiaro che esistevano complicità che dall’alto imponevano un certo strabismo agli uffici di pubblica sicurezza che operavano su quel territorio. 

I covi

Ad oggi sono stati scoperti tre residenze dell’ex latitante, ma non sembra siano state rinvenute le famose carte dell’archivio di Totò Riina, quelle che dovrebbero chiarire meglio i tanti misteri della stagione stragista, dei depistaggi e delle complicità di politici, uomini delle istituzioni e apparati dello Stato. Quelle carte che, secondo diversi pentiti, furono prelevate direttamente da Messina Denaro dal covo di via Bernini subito dopo l’arresto dello zio Totò e che avrebbero garantito i trent’anni di latitanza dorata. Nessuna notizia, inoltre, delle immense ricchezze finanziarie provenienti dalle tante attività illecite della mafia, in particolare dal traffico di stupefacenti. 

Sarebbe molto strano se alla fine, dopo un arresto inatteso dal capomafia, qualcuno avesse ripulito per tempo i covi e si dovessero rinvenire solo poche carte e appunti su fatti criminali secondari; qualche gioiello, il cui valore, anche se rilevante, sarebbe comunque un’inezia al confronto della ricchezza illecita accumulata, stimata in diversi miliardi di euro; ed  individuare solo le complicità di alcuni soldati di mafia, di pedine secondarie:  l’autista, il medico curante, il proprietario della casa, qualche piccolo fiancheggiatore.

Se le cose dovessero andare proprio così, sarebbe una conferma delle previsioni di Salvatore Baiardo e quello a cui abbiamo assistito non sarebbe un vero arresto, ma solo una recita ben organizzata ad uso dell’opinione pubblica. Insomma, puro teatro.

L’agghiacciante testimonianza di Gaspare Spatuzza, sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo

<<Poi l’abbiamo legato come un animale e l’abbiamo lasciato nel cassone. Lui piangeva, siamo tornati indietro perché ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo», ha ricordato. Il bambino era terrorizzato. «Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello ce abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire.