di Nuccio Dispenza

Prima, a ciascuna di loro veniva dato un bigliettino, un numero. “Trentuno!”, chiamava, a voce alta, l’agente in servizio allo sportello dei colloqui. E le donne guardavano il numero che avevano stretto in mano, nero su un quadratino di carta bianca: “Ho il quaranta…”. C’era da aspettare ancora, ed entravano allo Snack Bar dell’angolo.                                                                                                                                                                                     

Carcere di Regina Coeli, via della Lungara, angolo di via delle Mantellate, si, quella cantata da Gabriella Ferri: “Le mantellate so’ delle suore, ma a Roma son soltanto delle celle scure…”. Quando le Mantellate era carcere femminile.    Gabriella Ferri, ma ancor prima Ornella Vanoni, perchè la canzone – bellissima – è di Giorgio Strehler e di Fiorenzo Carpi.  Le suore, si, perchè il complesso che dal 1881 ospita il carcere per un paio di secoli era stato convento delle Monache della Visitazione. Ora le suore si contano sulle dita di una mano ed occupano un piccolo palazzetto lungo il viale che sale verso il Gianicolo, lì dove un tempo si mettevano le donne per fare arrivare i messaggi alla cella più vicina, che i messaggi poi li smistava. La balconata del faro. Tutto qui è un seguito di edifici e giardini di proprietà della Chiesa.                                                                                                                                                                                                                                                 All’inizio di Via delle Mantellate, proprio di fronte al piccolo bar, c’è da sempre quella porticina dalla quale si entra per i colloqui. Anche qui tre gradini, come tre gradini sono all’ingresso principale, su via della Lungara. La tradizione popolare vuole che non è romano e non è trasteverino chi non ha mai salito quei tre gradini. Storie e leggende di una Roma che non c’è più.   Lo Snack Bar, dunque. Se potesse raccontare tutte le piccole storie che l’hanno attraversato, sarebbe una bella storia. Tanti drammi, tragedie, vite volate per la tangente. All’interno, su una parete, la foto di com’era un tempo: bello e con una bella insegna, e sull’uscio degli uomini a guardare, fisso, l’obiettivo del fotografo. Oggi, tante donne tra lo Snack Bar e la porticina dei colloqui. Tante donne e tanti bambini. Per i piccoli l’attesa non è un dramma, anzi è festa: le caramelle gommose di Lupo Alberto, le patatine, la Coca Cola. Poi, festa anche per quei minuti a parlare con papà. Promesse per quando uscirà, raccomandazioni a non far arrabbiare la mamma, parole quotidiane, come se si fosse in luoghi ora perduti.                 

Lo Snack Bar non è bello e non è aggraziato, non gli si chiede. Sono invece assai aggraziate e gentili le due donne dietro il banco. Un sorriso per tutti, un gesto carino per i più piccoli. La seconda, la terza volta che li rivedono, le patatine sono in regalo, offerte le caramelle di Lupo Alberto.  Il tempo del Covid ha cambiato i tempi del colloquio coi detenuti. Sulla porticina in ferro, un foglio bianco con una scritta a pennarello avverte che si va solo per appuntamento, che si deve chiamare un numero di telefono.                                                                                                                                    Lo Snack Bar, all’angolo di via delle Mantellate, non tradisce le sofferenze, più spesso capita di intercettare sorrisi e confidenze. Si, certo, di lacrime ne ha viste tante, e per quelle si vendono anche i fazzolettini. “La scorsa settimana – dice la donna bionda dietro il banco – in quattro hanno comprato un “Gratta e vinci” ed hanno vinto 500 euro. Cinquecento euro divisi in quattro, non molto, ma erano felici. . “. Qui allo Snack Bar le vite sono livellate. Raro che ci sia qualcuno che venga dalla Roma bene, una donna ben vestita difesa da occhiali da sole. Per lo più sono immigrate e rom. Come la donna che mi sta al fianco e che mi parla del suo pastore corso ” In realtà – dice, indicando col pollice la porticina dei colloqui che sta alle sue spalle – il cane è di mio figlio…Pesa 44 chili…Una bella fatica stargli appresso, ma intanto ci devo badare io fino a quando lui non torna…”. La donna è una rom napoletana, si sente. Si, perchè a Roma, ci sono i rom abruzzesi ( la comunità più grande ), poi i camminanti siciliani, quindi loro, i “Napulengre”, si chiamano così. Lo stretto marciapiede davanti all’ingresso ha due panchine, i passeggini sono tanti. L’attesa è consumata tra il parlar tra loro di processi, sventure e ingiustizie, e una comune consumazione al bar. Se si fa tardi, allo Snack Bar si può pure pranzare.

“Abbiamo prezzi popolari – dice la donna bruna, più giovane, che con l’altra divide il lavoro dietro il banco – si mangia con pochi euro…Prezzi che a Roma non trovi altrove…Del resto…”. Anche per pranzare, al tempo del Covid è un problema. Prima dentro si stava gomito a gomito, si cercava il bancone dove poggiare i piatti facendosi strada tra bambini mai fermi e le larghe gonne colorate delle donne rom. Ora si fa a turno, e se c’è il sole, come oggi, ci si appoggia a qualcosa fuori, a ridosso della vetrata. Sole, dunque, sopra Regina Coeli. Sbatte sui sanpietrini lucidi di via della Lungara e torna agli occhi. Lungara, via lunga, rettilinea. Costeggia il Tevere, che però non si vede. La via è sottomessa ad un muraglione alto tre metri o poco più costruito a fine ‘800. C’è regina Coeli, il carcere dal quale il 24 marzo del 1944 uscirono tanti degli uomini trucidati alle Fosse Ardeatine, ma è anche strada che torna quando si ricordano grandi nomi che qui o poco più in là hanno vissuto. Bernardo Bertolucci abitava al numero 3. Gli ultimi anni vissuti su una carrozzella, conosceva uno ad uno questi sampietrini. Era solito fermarsi in un bar non distante dallo Snack, il Caffè Settimiano, sotto l’arco che gli da il nome. Proprio lì, quando la strada prende il nome di Garibaldi, ci visse Rafael Alberti, per quindici anni, dopo l’Argentina. Gli piaceva questa Roma, “la Roma trasteverina de los artesanos, los muros rotos, pintarrajeados de inscripciones políticas o amorosas, la secreta, estática, nocturna y de improviso, muda y solitaria”. A via della Mantellate Mario Schifano aveva lo studio, un loft profondo che si apriva su un grande spazio col soffitto a vetri. Li dipingeva attorniato da tanti monitor sintonizzati sulle tv di tutto il mondo. Tutti accesi contemporaneamente. “Era come entrare in una foresta in cui bisognava passare tra varie liane e vari inciampi – ricorda Achille Bonito Oliva – Mario lavorava sempre con la tv accesa, come Warhol…”. In via della Mantellate Schifano ci morì d’infarto un giorno di gennaio del ’98. Torno in strada dal portone buio dell’atelier Schifano quando i colloqui finiscono, è mezzogiorno, il portoncino si chiude. E’ allora che anche lo Snack Bar chiude, abbassa la saracinesca. Non c’è motivo di restare aperti, se non ci sono loro, le donne e i figli dei detenuti.

Di Bac Bac