di Nino Cuffaro

(Renato Guttuso, Portella della Ginestra)

Anche il prossimo 1° maggio, per il secondo anno consecutivo, causa pandemia da covid, non si celebrerà la festa dei lavoratori a Raffadali, da sempre tra le più partecipate e significative a livello regionale. Poco male – vien da dire – poiché da tempo si era perso il significato primigenio di questa manifestazione, degradata ultimamente al rango di una qualsiasi sagra paesana, sempre peggio organizzata. Sarà quindi opportuno ripercorrere la storia di questa giornata, per ricordare ai più giovani che le radici del 1° maggio raffadalese vengono da lontano e si innervano nelle lotte sociali del secolo scorso, che nel primo dopoguerra daranno vita al “biennio rosso” con l’irrompere sulla scena politica di masse di diseredati che chiedono occupazione, aumenti salariali e la giornata lavorativa limitata ad otto ore.

       Fu Cesare Sessa, dirigente storico del Partito Socialista e tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, a organizzare le prime mobilitazioni operaie e contadine attraverso la costituzione nel 1910 della “Lega dei contadini”, trasformata poi nel 1913 nel “Circolo socialista Lorenzo Panepinto”, dal nome del dirigente socialista di Santo Stefano di Quisquina assassinato dalla mafia. Un nuovo impulso alla mobilitazione popolare verrà poi, nel 1919, dalla fondazione ad Agrigento della sezione provinciale della Camera del Lavoro, della quale fu primo segretario lo stesso Cesare Sessa: in pochi anni raggiunse i 7.000 tesserati, di cui 5.000 contadini.

Le prime giornate celebrative del 1° maggio delle quali si hanno notizie sono degli anni dieci del novecento e le manifestazioni andranno avanti fino al 1923. Quest’ultima, organizzata da Cesare Sessa (che aveva appena finito di scontare tre mesi di carcere per “attività contro lo Stato”) nonostante il divieto della prefettura, che aveva ordinato la chiusura della sezione comunista. Il ventennio fascista soffocò la libertà di manifestazione, ma nonostante i divieti Raffadali fu un centro attivo nella lotta politica. Sono da ricordare due episodi certamente rilevanti. Il primo nel 1930 vede protagonisti gli operai impegnati nella costruzione della strada statale Raffadali-Cattolica Eraclea, che scioperano per chiedere un aumento dei salari e la diminuzione dell’orario di lavoro (allora la giornata di lavoro cominciava all’alba e finiva al tramonto). Il secondo episodio, forse più significativo, riguarda la manifestazione cittadina del 1931 che vede per la prima volta in piazza assieme ai lavoratori anche le loro donne.

       Caduto il fascismo, il mondo arcaico della civiltà contadina, popolato da una moltitudine sofferente, dispersa e disperata accomunata solo dalla fatica bestiale del lavoro nei campi e dalla miseria, diventa un soggetto politico organizzato – grazie all’attività di sensibilizzazione della camera del lavoro e del partito comunista – che prende coscienza dei propri diritti, chiede rispetto delle leggi (a partire dalla riforma agraria) e maggiore giustizia sociale. Si costituisce il 22 agosto 1944 la Federterra (Federazione Provinciale dei Lavoratori della Terra) con segretario Domenico Cuffaro, esponente socialista della prima ora, originario di Sambuca di Sicilia. Una massa anarchica di sfruttati, un proletariato rurale senza coscienza di sé, si trasforma in pochi anni in un popolo unito e organizzato, con valori condivisi e un programma politico chiaro: la terra a chi la lavora, più tutele per i braccianti e condizioni economiche dignitose.

(Il comizio in piazza Progresso, 1959)

                                                    
       Cemento di questa unione è la battaglia per il superamento dell’economia basata sul latifondo: enormi estensioni di terre condotte con metodi antiquati, scarsamente produttive, coltivate da contadini poco remunerati e trattati alla stregua di servi. Generalmente questi fondi erano proprietà di principi e baroni che campavano di rendita, lontani dalle loro terre, senza curarsi minimamente della conduzione agraria, delegando la gestione a campieri-mafiosi, in grado di controllare, e all’occorrenza intimidire, la manodopera. La battaglia contro il feudo, quindi, diede vita ad un movimento popolare per il rinnovamento economico e sociale, ma fu anche una lotta per i diritti civili e contro la prepotenza mafiosa.


       Rammento ancora i racconti di mio nonno sulle giornate di lotta per l’occupazione delle terre del feudo Cattà, di proprietà del barone Pasciuta. Mi parlava della paura della mafia, che non esitava a sparare per difendere gli interessi dei grandi proprietari: basti pensare a quello che accadde a Portella della Ginestra; della paura verso i carabinieri, schierati contro la “sovversione” del movimento contadino, che spesso caricavano manganellavano e arrestavano i manifestanti; della solidarietà tra compagni e della determinazione che li guidava, facendo vincere ogni paura per   rivendicare condizioni di vita accettabili. 

                                     
       Uscirono vittoriosi da quello scontro grazie alla guida sapiente di intellettuali come Cesare Sessa e Salvatore Di Benedetto, dotati di una chiara visione politica. Ma fu determinante anche la presenza sul campo di dirigenti coriacei che venivano dal mondo contadino. Uomini che certamente non avevano avuto la possibilità di istruirsi, ma che, grazie alla loro passione civile, al coraggio e alla credibilità politica acquisita stando in prima linea, seppero tenere le masse contadine unite, guidandole alla conquista di un pezzo di terra per sfamare le loro famiglie, ma soprattutto per affermare una dignità umana fino ad allora negata. Mi riferisco a Michelangelo La Rocca (segretario della Camera del lavoro), Domenico Tuttolomondo (dirigente comunista) e Mariano Burgio (segretario dell’Alleanza Contadini). Il 1° maggio era la festa di questo popolo, di chi aveva rialzato la testa per rivendicare i propri diritti, la festa dei lavoratori, della Raffadali rossa, quella in cui il partito comunista raccoglieva oltre il 60% di consensi.

(Anni ’50, il corteo parte dalla Camera del Lavoro)

                                            
       Ricordo con grande nostalgia la banda musicale che passa per le vie del paese, fin dal primo mattino, suonando Bandiera Rossa, l’inno dei lavoratori, l’Internazionale, Bella Ciao; il corteo che riempie via Nazionale con le bandiere rosse al vento; la sfilata delle cavalcature bardate a festa; i carri e i trattori con la rappresentazione di scene del mondo del lavoro; il comizio di chiusura di Totò Di Benedetto, con la sua straordinaria capacità oratoria, nella piazza Progresso stracolma di una folla attenta e disciplinata.
       Da molti anni non è più così, il senso di quella festa si è smarrito. È venuto meno il mondo della civiltà contadina e si è persa la memoria di quel patrimonio di lotte politiche e civili che avevano dato anima e forma a quelle celebrazioni.
       Ma se non avremo la capacità di recuperare la memoria del nostro passato, le nostre radici, perderemo – forse l’abbiamo già persa – la nostra identità di popolo. Non saremo più una comunità, ma solo una grigia moltitudine di individui che abita lo stesso spazio, priva di qualunque idem sentire.

                                              
       Noi raffadalesi contemporanei, però, abbiamo una fortuna straordinaria: avere come concittadino Mimmo Galletto: dovremmo essergli enormemente grati – io sicuramente lo sono – per il lavoro di una vita religiosamente spesa alla ricerca, interpretazione, recupero e conservazione della cultura che la civiltà contadina ha saputo generare. Con la sua sensibilità di scrittore, interprete, poeta e ricercatore ha costruito un monumento enciclopedico, un repositorio prezioso di umanità, con dentro le tradizioni, la parlata, i racconti, i canti, le poesie, le preghiere, i riti, i proverbi, i motti, le credenze, le usanze dei nostri nonni: un patrimonio indispensabile per conoscere ed amare quegli uomini dalla pelle cotta dal sole e l’animo ispirato dalla poesia.