di Vito Bianco

foto di Vito Bianco

 

Per raggiungere la mia Isola che c’è non devo puntare sulla seconda stella a destra e poi andare “dritto fino al mattino”; mi basta pedalare in direzione Milano sul marciapiede  del lunghissimo viale dedicato al poeta ottocentesco Fulvio Testi, del quale devo confessare di non aver mai letto nulla, salvo concedermi una deviazione all’altezza del ponte verde di Torretta, una delle fermate del tram 31 che lo percorre per una buona parte, per ridare un’occhiata all’Hangar Bicocca, un tempo padiglione industriale Pirelli e dal 2004 spazio espositivo tra i più stimolanti della città. Le mostre in corso al momento sono tre, tutte con titoli accattivanti: the eye, the eye and ear di Tisha Baga,  Short- circuits di Chen Zhen e l’installazione permanente di Anselm Kiefer I sette palazzi celesti, ispirata all’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, che descrive il percorso iniziatico che conduce il fedele al cospetto di Dio. Giro intorno al piazzale, osservo un lettore solitario seduto a uno dei tavoli del dehors, prendo un caffè al banco e mi rimetto in marcia.
Il cielo è coperto, forse pioverà e a quest’ora del mattino il freddo si fa sentire, specie in viso e sulle mani. Percorro un tratto del parallelo viale Sarca e, subito dopo aver superato il teatro Arcimboldi, mi rimetto sul viale Testi. Vado piano e guardo di lato, agli angoli dei semafori dove i controviali incrociano quello principale lungo il quale mi sto muovendo. Su un lato e sull’altro strade e quartieri simili a quelli di cento altre periferie italiane: brutti condomini, cemento, molti bar con videogiochi, ogni tanto il respiro di un giardino pubblico con un’area giochi per  bambini, donne e uomini a spasso con i cani anche nei giorni di freddo invernale.
Oltrepassata la Manifattura tabacchi, dove da qualche anno ha sede il Mic, museo interattivo del cinema, mi restano da fare appena un paio di chilometri per arrivare a piazza Lagosta, che è già Isola. Anche questa mattina, come la prima volta che ci sono arrivato, trovo il mercato all’aperto, che da solo fa già comunità, relazioni sociali, conoscenze, abitudini che si consolidano col passare del tempo. Poco più avanti ritrovo via Borsieri e l’ingresso quasi mimetizzato del Blue note, il locale dove sono passati e continuano a passare i nomi più importanti della scena jazzistica internazionale.

Lascio la bici legata a un palo e cammino per le vie di questo bel quartiere popolare silenzioso e con pochissime auto in circolazione. Quasi ovunque locali, ristoranti per tutte le tasche, botteghe artigiane, piccoli negozi di oggettistica, una minuscola ma accogliente libreria di due stanze che privilegia i libri per l’infanzia e la produzione meno visibile ma di qualità dei piccoli editori, dove passo mezz’ora ad annusare e sfogliare e trovo, senza averli cercati, due libri che mi porto via (ovviamente dopo averli pagati): Poesia e fotografia di Bonnefoy, e, per l’appunto, L’ignoto ignoto. Le librerie e il piacere di non trovare quello che cercavi del giornalista inglese Mark Forsyth.
A Isola si respira un’aria di paese, ma non è l’unico quartiere di Milano dove questo accade: succede anche a Porta Ticinese, nei quadrilateri attorno al naviglio grande, a Chinatown, il quartiere storico della comunità cinese che ha il suo baricentro in via Paolo Sarpi, persino in certe piazze, come piazza Sant’Alessandro, che d’improvviso ti strappano al rumore di via Torino e ti regalano un silenzio inaspettato, irreale. Antichità e insediamento popolare sono i due tratti distintivi del quartiere, che deve il nome al suo essere isolato dal resto della città che negli ultimi decenni del secolo scorso rapidamente diventava metropoli policentrica.
Strano, perché la Stazione centrale è poco distante e su un versante le ultime case guardano sulla ultramoderna piazza Gae Aulenti, sbocco naturale dei corsi Como e Garibaldi, un tempo vie anch’esse popolari e ora una delle principali mete della vita notturna cittadina.
Su questo confine adesso vegliano i due grattacieli ideati da Stefano Boeri, alti 100 e 80 metri, i cosiddetti “boschi verticali” e l’ultima casa di ringhiera di un piacevole giallo paglierino, sopravvissuta per testimoniare la persistenza della memoria anche, e soprattutto in vista di un probabile cambio radicale dell’insediamento sociale e quindi urbanistico, architettonico del quartiere.

Ai piedi degli svettanti e rispecchianti grattacieli con i balconi affollati di piante, molto acclamati e molto premiati, tre aeree verdi con parco giochi, accanto edifici moderni e di bella vista che indicano un futuro che appare ineluttabile, qui come altrove: verticalità, costruzioni all’avanguardia ma un po’ anonime e, soprattutto, inevitabilmente destinate a una ristretta fascia di privilegiati.
E ogni volta mi chiedo, guardando i grattacieli progettati dall’architetto milanese, ora direttore della Triennale e già brevemente assessore alla cultura nella giunta di Giuliano Pisapia, chi potrà mai permettersi di vivere in una simile avveniristica meraviglia?

“Vivere in uno di quei balconi, tra le due facciate, quella minerale e quella biologica, crea uno spazio di intimità molto simile a quello delle case popolari dove ci si vede, si scambiano delle idee e si condividono esperienze perché gli alberi del bosco verticale, come quelli dei cortili, sono di tutti” ha detto un anno fa Boeri al Corriere.it.
È comprensibile che l’architetto difenda la propria creazione, ma l’accostamento tra un grattacielo e un cortile a me sembra insostenibile, per non parlare della irrealistica condivisione di idee ed esperienze. Tra chi? Tra i calciatori e i rapper che ne occupano i confortevoli appartamenti, o tra questi ultimi e quelli che nel quartiere ci vivono da quarant’anni?
Prima di rimettermi sul viale Fulvio Testi, mangio un toast al tavolo di un bar, rimuginando e osservando il via vai all’incrocio di quattro vie: giovani mamme con passeggino, ciclisti in rapido e silenzioso passaggio, un turista straniero, solitario e curioso, che passeggia guardando le armoniose facciate dei solidi palazzi d’inizio secolo.
Isola, penso, è un laboratorio, un esperimento, la scena mutevole di un conflitto che riguarda sempre più sia i luoghi storici sia le agglomerazioni recenti, i margini, le periferie, gli spazi urbani sospesi tra non luogo e nuova, possibile identità. È, come questi, un luogo dinamico nel pieno di una mutazione tanto vitale quanto gravida di un preconizzabile e per niente rassicurante avvenire. 

 

 

 

 

Di Bac Bac