“Io che sono assetato e stanco non arriverò fino all’acqua del mare/Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi Dio che non lascerai passare la primavera”.

Zaher Rezai era poco più di un bambino. Anni adietro tentò di fuggire dal suo Afghanistan nel mezzo di una guerra troppo lunga, tessuta da troppi orrori. Lui era di un paese lontano, ai confini con l’Iran. Viaggiò a lungo, a piedi, con ogni mezzo. In ultimo aggrappato al fondo di un camion. L’ultimo fatale tratto. Zaher morì tra le ruote del camion. In Italia, a Mestre.

Era un poeta e amava la poesia di chi, prima di lui, nella sua terra aveva raccontato in versi un popolo sofferente lì, lungo la via della seta. Nel fagotto che si era portato nel lungo viaggio, poche cose, versi per l’appunto, e alcuni piccoli giocattoli di plastica, degli animaletti.

Mi sono ricordato di Zaher guardando e riguardando foto e video di questi ultimi drammatici giorni di Kabul. Uomini, tante donne e tanti bambini ammassati al muro e al filo spinato fra l’aeroporto dal canale di scolo, tinto di rosso dopo la strage promessa e attuata dai terroristi dell’ISIS, che cercavano la via di fuga da un paese risucchiato dal passato. Generazioni di afghani hanno convissuto con l’orrore della realtà e col sogno della fuga, l’esilio forzato.

Dice una poesia afghana:”Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo/ chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario?/ In un luogo alto sia depositata la mia bara/ Così che il vento restituisca alla mia patria il mio profumo”.

Ecco, guardando video e foto chi di chi saliva nella pancia degli aerei della salvezza mi sono chiesto: cosa portano con loro nello zainetto? Troppo piccolo perché possa starci tutta una vita, la vita dei padri, delle madri, la memoria  familiare, le cose di ogni giorno che spariscono nel buio della notte ma che ricompaiono sempre col giorno. Cosa salvare, cosa portarsi appresso? Uno zainetto per la fuga, poterlo aprire, guardarci dentro, provare a costruire il puzzle smontato dalla paura, dalla fretta di dover fuggire, sfuggire a una vita che non vuoi per te, per i tuoi figli. Sarebbe stato bello, ma non c’è cosa più intima di un bagaglio per la fuga. Nella fuga il valore delle cose è sconvolto, un leone di plastica – come per Zaher – può avere un valore immenso, e te lo porti appresso, con cura, quasi fosse un essere vivente, capace di soffrire con te. Lo tieni con cura, nella sabbia della strada lunghissima che porta al mare, ed oltre. 

Mi sono chiesto: cosa ci sarà nello zainetto delle ragazze? Forse l’anello d’argento antico con corniola della madre, forse l’abito buono per quando, dopo le lacrime, ci sarà spazio per la festa. Forse alcune foto, tirate fuori dalle cornici, abbandonate, altre foto prese dal cassetto. Forse. Forse tutto questo e tant’altro che non sapremo, accanto ai soldi, tutto quello che era possibile racimolare dai vecchi che non hanno più tempo per la fuga. E uno o due libri, uno o due quaderni dove hai scritto tutto quel che non si vuol dimenticare.

Le cose da dimenticare sono in testa e non vanno via, sono in fondo agli occhi, e non si cancellano, sono sulla pelle ed hanno messo radici.