di Tano Siracusa

‘Monet è solo un occhio, ma che occhio!’, avrebbe detto Cezanne.

È comprensibile che la pensasse così il grande provenzale precursore del cubismo, ed è anche curioso: Monet infatti osservava intensamente il soggetto, ma le sue pennellate descrivevano una realtà clamorosamente dissimile da ciò che l’occhio poteva vedere. L’intensità del suo sguardo cercava infatti l’inevitabile fugacità dell’istante già svanito.
L’istante, reale solo se oltrepassato visivamente nel flusso temporale, non corrisponde alla percezione visiva che ne abbiamo quando lo si fissa in un’immagine. Meccanicamente riprodotta dal fotografo o costruita dall’artista, l’ immagine di un istante può solo ‘somigliare’ poco o molto a ciò che rappresenta, e nel caso di Monet sempre meno col passare degli anni, fino alle ultime opere, le grandi ninfee a Giverny, che inoltrano la sua tarda pittura nell’ astrazione, in una assoluta trasfigurazione del dato visivo.

A differenza di molti dei suoi amici Monet non sembra cercare un confronto diretto con i fotografi, e neppure sembra interessato a metà degli anni ’90 alla invenzione del cinema. Eppure proprio in quegli anni aveva fissato, con pennellate vibranti su diverse tele accostate, il continuo trasfigurarsi e trascolorare della facciata della cattedrale di Rouen con il trascorrere del tempo e il variare della luce. Quella serie di dipinti fa pensare a una sequenza di scatti fotografici sullo stesso soggetto poco distanziati nel tempo e mal riusciti. O a una sequenza cinematografica a strappi.
Quello di Monet è solo un caso, uno fra i tanti, di un confronto a distanza fra pittori e fotografi, che nell’ambito della ritrattistica investe anche la sfera della committenza, ma che non raggiunge inizialmente il mercato dell’arte e i suoi luoghi espositivi.

Fotografi e pittori si frequentavano, si osservavano, spesso gli uni si interessavano al lavoro degli altri, ma le fotografie non venivano neppure proposte ai Salon. Sarebbe stato impensabile esporre un ritratto di Nadar accanto a un ritratto di Renoir anche in occasione della prima mostra degli Impressionisti del ’74, organizzata proprio nell’ex studio del famoso fotografo, che alternava le riprese avventurose dal pallone aerostatico durante la guerra franco-prussiana ai ritratti di celebrità letterarie e artistiche del tempo.

L’estraneità della produzione fotografica ai contesti consacrati dell’arte, anche d’avanguardia, accomuna nella seconda metà dell’ ‘800 chi ne negava esplicitamente il valore artistico, come Baudelaire (che si era messo comunque in posa per Nadar e per vari pittori) o Van Gogh, e chi come Degas le fotografie le realizzava, a volte utilizzandole per dipingere particolari delle sue composizioni. D’altra parte i fotografi non pretendevano allora di essere considerati artisti, di essere riconosciuti come tali.

Solo pochi, pressochè sconosciuti, fin dall’inizio sperimentano. Sollecitano i nuovi materiali, esplorano imperfezioni, limiti tecnici, errori, i tempi lunghi di esposizione ad esempio, che facilitavano il ‘mosso’, tutte le sorprese della stampa, tutti gli scarti che orientavano la fotografia verso la ricerca visiva e il confronto con le immagini dei pittori, degli artisti. Ma è solo con le avanguardie storiche, il futurismo, il cubismo, le varie scuole dell’espressionismo, e poi Dada e i surrealisti, che la fotografia entra in un mercato internazionale dell’arte ormai radicalmente cambiato rispetto agli anni di Nadar e degli Impressionisti.

Un mercato che soprattutto nel secondo dopoguerra sembra convergere e unificarsi nella moltiplicazione, ibridazione e contaminazione dei linguaggi e dei codici, in un panorama che ha travolto i criteri fondativi e regolativi della tradizione occidentale, frantumando differenze e gerarchie, e sottraendo alla fotografia l’onta o il privilegio di rimanervi estranea, inibendo fra i fotografi l’ambizione di non farne parte.
Il mercato dell’arte coinvolge ormai moltitudini di operatori, e per la maggior parte di loro la facilità di accesso allo status dichiarato di artista, resa possibile anche dalla scomparsa dei selettivi canoni della tradizione, introduce a una quotidianità difficile, problematica, precaria, a una marginalità anche economica inevitabile data la sproporzione fra offerta e domanda di ‘arte’, come documenta il magnifico, recente documentario di Ang Sookoon, Una vita per l’arte.

Todos caballeros, tutti artisti dunque, anche se per campare bisogna fare un altro lavoro.
Oggi se un fotografo che pubblica e vende le sue stampe tiene a precisare di non considerarsi un artista ma un fotografo, viene guardato con sospetto. Come separare fotografi e artisti, riconoscere un margine di irriducibilità degli uni agli altri, appare oggi a molti senza senso.
Eppure una fotografia di Degas, per esempio ill famoso ritratto a Renoir (che non amava essere definito un artista) e Mallarmè, propone un’esperienza diversa da quella offerta da un qualunque suo disegno, uno studio di ballerina ad esempio.
Nel ritratto fotografico la certezza che quell’immagine riproduce esattamente ciò che è stato visto ed è scomparso può risultare inquietante e implica un invito a guardare la realtà come fosse un quadro, già dentro una cornice, senza alcun intervento di chi guarda, senza alcun artificio.
Nel disegno la costruzione dello spazio, come un rivestimento del gesto della danzatrice, introduce in una realtà probabilmente mai vista, non in quel modo. Una realtà immaginata e costruita proprio per essere guardata dentro una cornice. Un elegante artificio, che chiede di escludere dallo sguardo la realtà.

Sono finestre che si aprono su paesaggi simili che non vanno sovrapposti, a rischio di svalutare entrambe le forme, la loro specificità anche estetica, di impoverirne la percezione.

fotografia di Degas

Di Bac Bac