di Vito Bianco


Nel penultimo verso di “Salmo”, che fa parte della raccolta del ’76 Grande numero, Wisława Szymborska scrive: “Solo ciò che è umano può essere davvero straniero”. Sembra un paradosso poetico, una delle ironiche mercuriali deviazioni con cui la poetessa polacca è solita deludere – e deliziare – l’orizzonte d’attesa dei suoi numerosi e ammirati lettori. Qui il rovesciamento dell’ordinario, del senso comune si impone subito con evidenza e genera perplessità: ma l’essere straniero, cioè estranei, non serviva a segnalare la distanza, incolmabile, dall’umano, da ciò che di solito associamo a questa parola? Quanto più qualcosa o qualcuno ci somiglia, abbiamo sempre pensato, tanto più è riconoscibile come umano, degno dell’uomo, ovvero familiare, domestico, vicino a noi che siamo umani e sappiamo quindi leggere i segni dell’umanità in un gesto, in un volto, in una parola.

Per contro, disumano sarebbe tutto ciò che di questi segni di riconoscibilità è privo e ne dà a vedere altri, indecifrabili. Disumano è tutto ciò che non ha volto umano, che non ci somiglia, che non è familiare, che viene da lontano, che non è assimilabile, integrabile, accordabile alla gerarchia storica dei valori morali e civili in cui da qualche secolo (non troppi) crediamo, o dichiariamo di credere. Ma il verso insiste, chiede di essere ascoltato al di là  del paradosso, dell’iperbole letteraria, della mercuriale provocazione; ci chiede di essere preso sul serio. Ma prendere sul serio la poesia non è mai facile. E quasi mai è conveniente: scompiglia le carte, costringe a pensare altrimenti, che a ben vedere è il solo modo di pensare che conta. “Solo ciò che è umano può essere davvero straniero” vuole forse dire: solo in ciò che riconosciamo umano possiamo riconoscere il suo contrario, l’alterazione o il pervertimento dell’umano, il dis-umano.

Perché fuori dell’umano per noi umani non c’è che l’alieno, ossia ciò che è letteralmente irriconoscibile – né familiare né straniero. Straniero può essere infatti, nel bene e nel male, solo ciò che si mostra – “che è davvero” – umano: i Lager (anche quelli odierni) e Teresa di Calcutta; il migrante senegalese e il razzista della porta accanto. Lo starec Zosima e Pëtr Verchovenskij. Nulla insomma accade che non ci riguardi e interpelli. E come potrebbe, del resto, se nulla può uscire dal solco di quel che gli uomini pensano e fanno? Convincersi che sia possibile è soltanto un comodo, e molto umano, autoinganno.

Di Bac Bac