di Tano Siracusa

Regione di Temuco, Cile, 1998

A Los Sauces c’era solo un locale aperto di mattina dove poter mangiare qualcosa e bere un caffè caldo.
Non era un bar, non ne esistevano, era una buia rivendita di attrezzi e utensili per i lavori in campagna, dove vendevano anche del pane e un buon formaggio.
Nell locale ancora immerso nel freddo pungente della notte il caffè caldo portava il conforto ingannevole di una casa.
C’era un tavolo accostato alla finestra. La vetrata smerigliata dal freddo lasciava entrare dalla strada vuota un grande, immobile bagliore bianco. Non c’era nessuno in giro, io e il proprietario sembravamo gli unici esseri viventi nel villaggio.
Quella finestra spalancata sulla strada, quel bagliore facevano pensare chissà perché a Sotto il Vulcano, a una delle strade dove il Console si ubriacava fino a stramazzare per terra. A quella immobile catastrofe.
C’era solo da aspettare che passasse qualcuno da inquadrare nel controluce dentro il mirino, o qualcosa, un furgone, un fuoristrada, l’attimo in cui quella immobilità sarebbe stata dissolta da un evento qualunque, anche minimo: come un cattivo sortilegio.
Avevo scelto il diaframma e il tempo di esposizione, provato l’inquadratura poggiando il gomito sul tavolo. Avrei solo dovuto allungare il braccio, prendere la Canon e scattare.
Ma non passava nessuno. Nè il primo, né il secondo giorno, e il proprietario della rivendita, come in generale i Mapuche, era un uomo taciturno. Dopo un quarto d’ora d’attesa e aver fumato la prima sigaretta il silenzio diventava innaturale e uscivo fuori, per sentire il suono delle nostre voci nel saluto e poi il rumore dei miei passi sulla strada.
Erano austeri e misteriosi i Mapuche, fieri e silenziosi mentre li fotografavo nelle loro povere case di legno, i volti illuminati dai raggi filtrati dalle travi, o mentre attendevano immobili come statue il turno della visita negli ambulatori della selva dove si recavano a cavallo. Pazienti, fieri, silenziosi e combattivi.
Nella zona c’erano stati scontri con l’esercito in quei giorni, ma i quotidiani mettevano la notizia nelle pagine interne.
Sia dentro che fuori il locale il silenzio era quello di un luogo disabitato.
Il terzo giorno dopo avere contemplato per dieci minuti quella bianca, illusoria eternità avevo deciso di scattare lo stesso la fotografia.
Dentro il mirino era subito apparsa la bicicletta e la sua pallida, lunga ombra proiettata sulla strada dal sole ancora basso. Come creati nel mirino dall’nquadratura. Era ciò che avevo atteso e che spezzava finalmente il bianco nulla di un’illusione. Ho avuto il tempo di fare solo uno scatto, era bastato.
Alcune fotografie si impigliano nella memoria come pesci voraci all’esca. Di solito è a causa di una sorpresa.
Un viso mai visto, sfocato e in primo piano che emerge da una zona nera della stampa, quasi bianca sul negativo: è la sorpresa, osservare nella fotografia il non visto nell’attimo del clic, come nel racconto di Cortàzar che ha ispirato Blow-up. Può anche essere un elemento formale, il rilievo non percepito nell’attimo dello scatto di un particolare che organizza diversamente la struttura dell’immagine. L’artiglio di un rapace in volo che sembra uncinare un filo della luce, una mano che non si capisce di chi sia: é la gradita sorpresa del non visto. A volte la ragione della ‘durata’ della foto nella memoria è opposta, come davanti quella finestra: la lunga, paziente e premiata attesa di un evento qualunque.



Di Bac Bac