di Vito Bianco

Metto uno accanto all’altro due quadri distanti più di due secoli: La nascita della pittura di Matias de Arteaga (1665) e Chiaroveggenza di Magritte (1936), per vedere cos’hanno in comune due opere a prima vista tanto diverse. Il tema del dipinto di de Arteaga è, come dice il titolo, il racconto mitico trasmessoci da Plinio sulla nascita della pittura; quello del quadro dell’ironico surrealista Magritte è, o vorrebbe essere, la chiaroveggenza; o meglio, la chiaroveggenza dell’artista, che nel novero dei suoi doni è il più misterioso.

Nella prima tela si vede una ragazza che traccia su una porzione di muro il profilo dell’ombra dell’amato che si prepara a partire per la guerra: se non dovesse far ritorno, le resterebbe almeno il ritratto della sua ombra, il sostituto impalpabile della presenza. Nella seconda un artista, forse lo stesso Magritte, ha appena finito di fare apparire un uccello in volo. Sul tavolo alla sua sinistra c’è un uovo. De Arteaga dipinge, per interposta mano, quel che vede, seguendo diligentemente la linea dell’ombra portata; Magritte, all’opposto, dipinge ciò che vede solo con gli occhi della mente. Entrambi i quadri parlano però della stessa cosa: la pittura, i suoi due principali modi di dar vita alle rappresentazioni. Sono due modi di celebrare la pittura mettendola in scena o, per così dire, davanti allo specchio. Che per secoli, reale o implicito che fosse, non ha mai abbandonato la pittura, che vi si è riflessa per desiderio di autocelebrazione ma forse anche nella speranza di scoprire un segreto su di sé, sulla strana natura delle immagini, e sullo speciale rapporto che queste ultime intrattengono con la realtà che le circonda. Il tema, il motivo ricorrente dell’artista che si ritrae nell’atto di eseguire un’opera, di contemplarla dopo l’ultimo tocco di pennello o di incarnarne l’idea che la precede con l’offerta del corpo e la mostra degli strumenti dell’arte sorge all’incirca nel XVI, il secolo dell'”invenzione del quadro”, e arriva, dopo aver a lungo giocato col discrimine incerto, indeciso, ​scorrevole che divide la finzione pittorica dalla realtà, ai quadri specchianti di Pistoletto, in cui la coincidenza spaesante tra spettatore e la cosa vista sembra riportare nella concretezza del reale l’idea albertiana del quadro come finestra mimetica. Qui ora non c’è altro che una finestra riflettente, un rettangolo senza bordura e un numero infinito e cangiante di immagini che passano, si fermano e se ne vanno, finché, a museo chiuso, non rimane altro che una forma vuota.

Ed è proprio da una finestra che, come spesso accade, arriva la luce che rischiara la stanza dove Vermeer ambienta la sua nota interpretazione del tema “allegoria della pittura”, che l’artista olandese pone accanto alla figura che rappresenta la musica, come a far risaltare la pari, se non superiore nobiltà di una disciplina ormai da tempo emancipata dal sin troppo stretto legame con il mondo della committenza religiosa.

Il pittore di Vermeer non guarda dalla finestra. È lontano e ci dà le spalle, intento a una esecuzione il cui risultato non vediamo né in tutto né in parte, come nelle Meninas di Velázquez (1656), dove però il pittore autore guarda noi e i soggetti ai quali sta lavorando. Sembrerebbe quindi che per l’olandese allegoria sia sinonimo di distanza, di solitudine necessaria affinché qualcosa di durevole si produca sulla tela. E ancora: non serve guardare dalla finestra; la pittura, ci dice Vermeer, si fa soprattutto con l’occhio interiore, nel quale si deposita tutto ciò che gli occhi del corpo hanno saputo guardare. I quadri, dirà Chardin, non si fanno coi colori, ma con il sentimento, che forse è un altro modo di chiamare quest’organo interno, il simbolo immediatamente riconoscibile della sapienza artigianale che permette di cogliere l’essenziale. Nel suo laborioso isolamento, l’autore di questa allegoria, ossia della traduzione visibile di un’idea, suggerisce il pensiero che la pittura sia fondamentalmente una pacata, accurata meditazione sul visibile che prevede una sorta di ascesi mondana; il pittore di Velázquez, invece, propone l’arte pittorica quale raffinato gioco dialettico tra visibile e invisibile guidato dalla sapienza demiurgica dell’artista che fieramente mette in mostra la mano capace di far nascere un’illusione molto vicina al vero. La quale illusione è esibita come tale da Sofonisba Anguissola in una tela del 1559 intitolata Bernardino Campi ritrae Sofonisba Anguissola, in un gioco di rimandi al cui centro si colloca l’omaggio al maestro che l’ha formata.

Sofonisba è nell’immagine visibile a figura intera, davanti alla quale si trova Campi con il pennello, ma rivolto allo spettatore, come a invitarlo ad ammirare il frutto fresco delle sua maestria, che in realtà è quella di Anguissola, che qui rimarca la propria identità artistica sottolineando una precisa filiazione, e l’idea che l’arte sia una ininterrotta catena di tradizione in cui persino gli scarti dalla convenzione, i momenti eccentrici non fanno, paradossalmente, che ribadirne la movimentata continuità di spirito, volontà e mestiere. Se Anguissola si ritrae sulla tela come una gran dama della pittura, Artemisia Gentileschi, l’altro grande nome della storia dell’arte italiana, lo fa cogliendosi in uno spazio chiuso dominato da una tela scura su cui la concentratissima Artemisia sta per tracciare la prima linea.

È l’attimo aurorale del passaggio quasi soprannaturale dal nulla al qualcosa, dall’invisibile al visibile, dall’immagine mentale al gesto. È la mano che stringe il pennello, ma è tutto il corpo che partecipa dell’intenzione artistica, come si può evincere dalla postura del corpo, dinamica e concentrata quanto lo sguardo. Per dire che se vogliamo ritrovare la scaturigine della pittura, è pur sempre al corpo che dobbiamo risalire, a quel corpo, a quei corpi che sin dalle origini sono stati l’ossessione permanente della pittura, epoca dopo epoca e stile dopo stile. E in fondo, cos’altro sono queste allegorie e autoritratti, se non anche, o soprattutto, un modo di non dimenticare la presenza del corpo in un’arte costretta alle due dimensioni della tela? Il corpo e il volto. Come quello dell’anziano Chardin davanti a una tela di cui vediamo appena un bordo, un curioso berretto da notte stretto alla testa da un nastro con fiocco, l’espressione mite ma risoluta di chi può dirsi soddisfatto del lavoro compiuto e a noi chiede soltanto un minuto di partecipazione, di simpatia, di fiducia. Ora l’anziano artista ha bisogno degli occhiali; ha bisogno di sostenere una vista che comincia a vacillare, mentre la mano, che in vecchiaia aveva tradito Renoir, ancora tiene, è ferma, sicura.

La mano gli occhi il corpo. Tracciare, vedere, dare corpo. In questa triangolazione si consumano i destini dell’arte e degli artisti. Quello lungo ​di Matisse, o l’altro rapido, inquieto e bruciante di van Gogh, impegnato in una impresa impossibile: afferrare coi mezzi della pittura l’anima delle cose. In tutti questi casi, da de Arteaga a Chardin, e in altri che vedremo, il tema del rispecchiamento si intreccia con quello delle cornici: la prima, quella più ampia che circoscrive l’opera, ne ingloba un’altra, quella della tela alla quale finge o davvero lavora l’autore del dipinto, riproponendo così in abisso il tema cruciale della delimitazione, della bordura che separa il dentro della finzione dal fuori della realtà. Ma la cornice è il fuori che fa esistere l’altrove finto, o è il confine di questo altrove? È, insomma, ergon o parergon, segno del reale escluso o ultima estensione e limite senza il quale non potrebbe darsi? È, credo, l’una cosa e l’altra. La cornice è il punto di sutura, di congiunzione di una inquietudine dialettica che può essere sospesa ma non composta una volta per tutte, in cui la dimensione finzionale rimanda all’esterno lasciato fuori e viceversa: conta quale accentuazione visiva decidiamo di accordare alle linee di confine che isolano lo spazio dell’apparizione del quale fanno ambiguamente parte.

La finzione tende a sfondare i limiti, a proiettarsi potenzialmente all’esterno, a implicare virtualmente ciò che resta non visto ma avrebbe potuto esserlo. Nel dipinto di de Arteaga il profilo dell’ombra del ragazzo chiamato alla guerra è tracciato su una superficie murale priva di contorni netti: è una sorta di supporto originario, di matrice degli altri che verranno in seguito. D’altra parte qui si dà vita visibile al racconto di fondazione, al gesto inaugurale che costituisce la pittura in quanto artefatto per tenere desta la memoria attraverso la copia che surroga l’originale assente. L’immagine colma il vuoto. La mano che la fa esistere è spinta dall’amore e dalla speranza del ritorno. Anche in Artemisia la tela bruna è un muro – sembra un muro che lo slancio creativo dell’artista cerca di scalfire, di “sfondare” verso l’inverosimiglianza ricreatrice che metterà in comunicazione reale e fantastico, dato che, qualunque cosa rappresenti, un quadro è sempre un quadro, cioè una irrealtà alla quale decidiamo di credere.

Nelle Meninas la seconda tela è una costruzione, un cavalletto visto da dietro, due immagini nascoste che un presunto specchio forse riflette (quindi replicabili); sullo sfondo del quadro che possiamo vedere altri quadri, altre cornici…

Nell’allegoria di Vermeer è invece una “pagina” quasi sicuramente ancora bianca, sulla quale sta per esercitarsi la maestria dell’artefice, che la copre col corpo. In Chardin quasi solo un’idea, un angolo che fa capolino da un altrove più reale di cui media la fantomatica e attraente presenza. Nell’affascinante e un po’ ironico Bernardo Campi ritrae Sofonisba Anguissola la tela aspetta solo di ricevere la sua degna cornice, per potersi dire finalmente finita.

Sono questi i modi prevalenti attraverso i quali gli artisti hanno messo in scena se stessi e la pittura. Tutti, fino al Novecento e ai nostri giorni, seguiranno, con minime ma talvolta significative varianti, lo schema tradizionale diventato maniera e codice comune, un luogo comune di riconoscimento e appartenenza. Una di queste variazioni si deve a Courbet, che nel suo grande quadro che riassume un’epoca, L’atelier del pittore , declina il tema con respiro e un’imponenza senza precedenti né, credo – perlomeno su questo terreno monumentale e eroico-celebrativo – prosecutori. E così, dopo aver consumato il desiderio di luce ed essenzialità dell’impressionismo e dei suoi immediati successori, la pittura, sempre più consapevole dell’unicità dei propri mezzi, troverà nuovi stimoli per seguitare a mettere in scena la sua congenita inclinazione a esibirsi, mostrarsi, farsi ammirare, come se, per essere sicura di esistere, non potesse fare a meno di guardarsi allo specchio.

Di Bac Bac