di Alfonso Lentini

Alfonso Lentini

Con Iride, non so dove, forse seduti in un locale plastificato dai tavoli tondi e gialli, di notte.

Lei fa oscillare fra le dita un molto geometrico bicchiere a forma di piramide rovesciata, colmo di un liquido granuloso e stellato.

Guarda fuori attraverso la frangetta viola, verso il porto.

C’è profumo di arance, al banco servono spremute.

“Che facciamo domani? E poi il giorno dopo? E nei prossimi trent’anni?”

A queste parole, batte le ciglia e mi scocca dalle palpebre un sorriso rosato: “Io non lo so, e sto bene così”.

Il locale è affollato di cianfrusaglie vocali e le sue parole si perdono in una spirale di teratologie linguistiche e tintinni.

Alza un momento la voce facendo imbuto con la mano e ripete: “Io non lo so!”

Sciamano fra i tavoli ragazzi di colore, manager nerboruti, donne dal viso di nebbia, grossi topi.

Accanto al nostro tavolo viene a sedere un uomo accompagnato da un cagnetto (“Giù, Fiocco! Cuccia!”).

“Vedi, Gaspare, al contrario di voi, io sono contenta di non sapere, ho alle spalle galassie di innocenza…”

La guardo comprensivo, cercando di rassicurarla. Provo a rispondere come posso al suo sorriso rosato. Non mi riesce. Mando giù quasi tutto il cocktail che rimane nel mio altrettanto geometrico bicchiere. Ne ordino subito un altro.

“Mi sento primavera, Gaspare, mi sento germoglio, sono in fiorenza. Et capisco ca est cosa bona et justa… Paxit.” Ora usa parole antiche, da canzoniere venusiano del ‘300.

Il cane è un bastardazzo color zuppa di lenticchie e ci annusa con occhioni ansimanti, anguillosi.

Anche lui sembra concordare con Iride. Galassie di innocenza, sì.

Un blues prende il largo, rosso e sfilacciato, dai tasti di una fisarmonica scassata. La fisarmonica si agita fra le mani di un omino che fino a quel momento nessuno aveva notato, apparso tra la folla come una bolla di sapone.

Provo a informarla in fretta di quanto è accaduto negli ultimi due o tre millenni.

L’uomo col cane sorseggia la sua birra, spingendo avanti minuscole labbra sulle quali crescono aculei biondi. Mi chiedo che età possa avere; sembra giovane e vecchio nello stesso tempo: giovane nei movimenti aggrovigliati delle  dita, vecchissimo nel pallore umidiccio della pelle.

Iride ascolta il mio affannato riassunto con un’espressione falsamente compiaciuta. Ascolta.

Sotto le suole sentiamo allora una vibrazione cupa, un rombo di ferraglia prolungato e minaccioso.

“Cos’è?” Chiede Iride, oscillando il visino.

“Sotto il bar passa la metropolitana,” risponde l’uomo col cane.

Fuori: ambulanze e camion delfinano sul cavalcavia.

Un colpo di tosse secco come uno sparo.

“Mi sento in fiorenza,” riprende Iride. “Anche se non so nulla dell’idea di bellezza e dei vostri discorsi sull’etica kantiana. Sono stufa di sentirvi urlare concetti vaghi e approssimativi. E che ne so dei gruppi marmorei del Bernini, delle installazioni di Beuys, dei Crocifissi del Cimabue, di Pavarotti, di Egon Schiele… Neanche di Marylin Monroe so nulla, figurati!”

Il cagnetto si gratta la testa con la zampa, attento.

“Non ci crederai, Gaspare, ma non ho mai visto una foto di Marylin Monroe. Neppure un film ho visto di quella là. Ora ho prurito alle labbra e vorrei un altro bicchiere di questo liquido denso e granuloso.”

Provo ancora, senza successo, a ricambiare il suo sorriso di prima. Ma ora lei non sorride più.

“Che ne so delle vostre idee sull’arte che deve raccontare le brutture? Ma quali brutture?”

Batte la mano di piatto sul tavolino e continua: “Ma quali brutture? Le stragi, i genocidi. Ma quali? Io sono nuova, Gaspare. Sono nuova. Tu sei ferito; sei tu che non puoi concederti niente che somigli alla mia baldanza. Tu sei ferito e non sei certo innocente. Non puoi.”

Fa una pausa, passandosi le dita nervose fra i capelli e incrocia per un attimo, senza farci caso, lo sguardo consonante del cagnetto. Riprende fiato con un lungo respiro, facendo sussultare esageratamente il seno.

“Tu, voi, avreste dovuto raccontare, costruire una lingua, che so, un qualsiasi sistema di segni o figure. E invece. Invece avete permesso che arrivassero. Avete consentito che portassero via le montagne, sradicandole dal suolo come fossero cespugli. Avete permesso che chiudessero a chiave le aquile, riponessero i lupi nei cassetti, le scimmie negli armadi.”

L’uomo col cane sta ascoltando i nostri discorsi a viso basso. Osserva la sua birra sul tavolo, le gocce che scivolano giù sul vetro appannato del bicchiere.

Mentre sorride, cerca di nascondere le labbra sollevando per finta il boccale.

Il cane sfiora le scarpe del suo padrone e aspetta che la ragazza riprenda a parlare.

Il viso di Iride, per un casuale gioco di lampade, è illuminato più dei nostri che invece sfumano nella penombra.

Le sue labbra ora sono immobili e scintillano.

(Da “Misterium sanguinis” (inedito, 1999-2000)

Di Bac Bac