di Nuccio Dispenza

L’immagine del mondo dolente e violentato ci arriva sempre pixelato nelle piaghe. Giornali e tv lo coprono con pixel, quei quadratini che annullano la parte dell’immagine ( e della realtà) che non si vuole rappresentare e trasmettere. Per non far vedere la crudezza di quel che si è consumato nei fazzoletti insanguinati del mondo dove si combatte, si uccide, si muore, dove il corpo, per la violenza subita, passa da bellezza ad orrore.  Il pixel è l’unità minima di superficie di una immagine digitale e pixellare significa rendere non riconoscibili alcuni dettagli attraverso la modifica dei pixel.      Si dice, è fatto per tutelarci. Certo, ma resta il fatto che – distanti – non ci arriva per intero lo scandalo della violenza.   Nella realtà, una bomba taglia in due, o sbriciola, il corpo di chi entra nel cerchio mortale dell’esplosione, le budella hanno il sopravvento sulla pelle,  la bomba fa saltare in aria gambe e braccia, sfigura senza pietà. Ed è pure difficile ricomporre alla meglio quel che resta di un uomo, di una donna, di un bambino. 

“The purple line”, la mostra di Thomas Hirschhorn allestita negli spazi dello splendido MAXXI di Zaha Hadidi, a Roma, fa l’operazione inversa e mette in discussione quella regola giornalistica sulla quale, personalmente, non sono mai riuscito a ritrovarmi, se non con parecchi dubbi.             

“Il mondo ha bisogno di essere depixelato”, ci dice Thomas Hirschhorn con i suoi “Pixel-Collage”, un imponente ciclo di lavori che l’artista svizzero ha realizzato in un paio di anni, tra il 2015 e il 2017. Nato grafico, con altri grafici e designers, Hirschhorn, è protagonista del gruppo Grapus. Per la prima volta il MAXXI ha riunito insieme e li propone in un percorso voluto dall’artista, seguendo un layout disegnato dallo stesso Hirschhorn su un lunghissimo muro viola ( The Purple Line ) che attraversa l’intera galleria del primo piano. La The Purple Line arriva nel momento in cui i cosiddetti “venti di guerra” ci preparano, forse, ad altri orrori, ad altre immagini “controllate”, sostanzialmente censurate, di fatto pixellate dagli effetti più devastanti di una guerra. Quindi, benvenuto questo percorso shock che mostra il non visto, che ci impone ad essere vigili e coscienti, non distratti.                                                                                                                                     

Per come ha voluto la mostra lo stesso artista, il contesto espositivo è “rinegoziato”, come ben sottolinea la presentazione. Il visitatore trova spazi più angusti di quelli conosciuti per altre esposizioni, si muove con meno agio, si ritrova in faccia la crudezza di quel che resta dell’uomo quando è passata la violenza. I pixel sono su quello che circonda l’orrore e che potrebbe essere una comoda fuga per gli occhi, quello che nel quotidiano non ha censura. Emergono, così, tutte quelle porzioni importanti di realtà che sono quotidianamente sottratte al nostro sguardo e alla nostra riflessione. Lo scomodo, non il comodo.                                                                                                                                                           

Un percorso, risultato della ricombinazione di immagini pubblicitarie accanto a immagini di corpi mutilati. Immagini dalle quali ci hanno abituato a fuggire e che invece qui, per come l’artista ha voluto l’allestimento, ti imprigionano, ti costringono a guardare, fosse solo per un attimo, prima di trovare lo spazio per andare oltre. Le immagini raggiungono i nostri occhi senza preavviso, la nostra “difesa” è sorpresa, annullata, non facciamo in tempo a proteggerci. E se si va oltre, c’è ancora altra realtà rimossa, nel quotidiano pixelato. Qui (ri)torna, per gli occhi ma anche per la mente. Non c’è altro. Senza respiro, puoi solo deglutire e sapere che ti attendono altre dosi.

Quella di Hirschhorn è una mostra ( esatto, mostra ) “contro il dilagare dell’ipersensibilità nel mondo contemporaneo” che si porta appresso censura, autoprotezione ed esclusione. Il Hirschhorn del MAXXI cancella il controllo quotidiano operato su quel che vediamo, qui e ora non abbiamo scelta, questa volta non c’è chi ha scelto per noi e ci risparmia, qui non possiamo distrarre il nostro sguardo, qui i pixel coprono il superfluo, non la vita e la morte.

Ecco, The Purple Line – come dice l’artista –  è una palestra dove esercitare la libertà e la comprensione dei limiti della contraddorietà di ciò che vediamo.

Di Bac Bac