di Vito Bianco

In un saggio uscito nel ’71 e ripubblicato due anni fa da Mimesis nell’ottima traduzione che Ettore Capriolo aveva realizzato per l’edizione Mondadori del ’72, Ivan Illich argomenta la necessità di “Descolarizzare la società”, titolo che riprende l’originale Deschooling society, al quale nel frontespizio l’editore italiano aggiunge un sottotitolo in forma di domanda: Una società senza scuola è possibile?, che vorrebbe dire farla finita con il sistema monopolostico e corporativo dell’insegnamento, con la “macchina didattica” concepita come obbligatoria catena di montaggio che confonde “insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, conoscenza della materia con la capacità di dire qualcosa di nuovo”,  al fondamento della quale sta l’idea che nulla di quel che si può imparare fuori della scuola conta, e che ciò che vale la pena di imparare lo si può imparare soltanto seguendo disciplinatamente tutte le tappe di un regolamentato corso di studi dentro l’istituzione scolastica.

“Ma i più acquistano la maggior parte dela loro cultura fuori della scuola”, scrive il poliedrico studioso viennese di nascita ma cosmopolita per vocazione nel capitolo “Perché dobbiamo abolire l’istituzione scolastica”, contestando l’illusione che “molto dell’apprendimento derivi dall’insegnamento”,  “oppure a scuola, ma solo perché in alcuni paesi ricchi la scuola è diventata un luogo di confinamento per una parte sempre più lunga della propria vita”.
E più avanti, nella stessa pagina: “Quasi tutti quelli che leggono molto e con piacere credono di avere imparato a farlo a scuola, ma se li fa dubitare, si rendono presto conto che è soltanto un’illusione”.
Ritualizzazione e natura autoreferenziale del sistema sono caratteristiche salienti dell’istruzione programmata, che produce una fame di “progressive immissioni di insegnamenti”, la quale però “non dà mai la gioia di apprendere qualcosa per soddisfazione personale”. Ogni argomento “arriva già imballato, con le istruzioni, per continuare una ‘offerta’ dopo l’altra, e l’involucro dell’anno precedente è sempre antiquato per il consumatore dell’anno in corso”.

Illich sostiene, con ottimi argomenti, che la scuola, così strutturata, è al servizio del conformismo e della cattiva utopia del consumo illimitato, ed è quindi irriformabile e va sostituita con una rete didattica diffusa grazie alla quale ognuno è libero di studiare quel che vuole e di scegliersi autonomamente guide e compagni di studio, sancendo così la fine del monopolio degli insegnanti autorizzati dalla certificazione istituzionale e aprendo l’epoca della libera docenza di coloro che sanno e sanno fare: “Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuove reti a disposizione immediata del pubblico e fatte in modo da poter assicurare a tutti eguali possibilità di apprendere e insegnare”.

Come si capisce da questo imperfetto riassunto che può soltanto alludere alla ricchezza e articolazione dei suoi argomenti, il brillante saggio di Ivan Illich respira l’aria del ’68 e fa subito venire in mente don Lorenzo Milani e la sua collettiva Lettera a una professoressa.
Con una differenza decisiva: Milani non mette in discussione l’esistenza dell’istituzione scolastica, e la sua proposta didattica alternativa resta passivamente accanto alla scuola ufficiale, anche quando la contesta e ne critica i presupposti di classe.
Una critica ingenua, perdente e in fondo incongrua se finisce con l’accettarne il sistema di valutazione piattamente nozionistico. Per dirla in breve: studiare “orizzontalmente” e con un approccio critico a Barbiana per poi farsi giudicare “verticalmente” all’esame di Stato, non solo non è una buona idea, ma è una patente contraddizione.

La cosa sorprendente del saggio di Illich è che non è invecchiato di una virgola; anzi, per molti versi è più puntuale e vero di quarant’anni fa, perché la scuola nel frattempo è peggiorata: più burocratica, più asettica, più meccanismo competitivo basato sul calcolo e la verifica unidimensionale  e altrettanto discriminatoria nella distribuzione delle possibilità reali di lavoro e carriera, e sempre meno luogo di apprendimento creativo.
Eppure dovremmo sapere da tempo che la personalità “non è un’entità calcolabile”; essa “avviene” in una “dissidenza disciplinata” che non può essere misurata da nessun metro e da nessun corso di studi, “né può essere paragonata ai risultati raggiunti da un altro”. Per Ivan Illich, “si possono emulare gli altri solo nello sforzo immaginativo, seguendone le orme anziché scimmiottandone i passi. L’apprendimento che io apprezzo è una ri-creazione incommensurabile”.

Di Bac Bac