di Tano Siracusa

Claude Monet, Impressione, levar del sole, 1872

In un delizioso piccolo volume che raccoglie testi di Paul Valéry su Degas (Paul Valéry – Degas Danza Disegno – ed. Abscondita), il poeta e teorico francese scriveva, a proposito delle fotografie sul cavallo in corsa di Muybridge, che “rendevano manifesti gli errori che tutti gli scultori e i pittori avevano commesso ritraendo le diverse andature del cavallo.” E aggiungeva: “Si vide allora quanto l’occhio sia inventivo, o piuttosto quanto la percezione elabori tutto quello che ci presenta come un risultato impersonale e certo dell’osservazione”.

Si era creduto insomma di vedere ciò che era stato invece immaginato e che la documentazione fotografica alla fine dell’ ‘800 rivelava come mai accaduto. Valéry scrive di “una sorta di creazione con cui l’intendimento colma le lacune della registrazione operata dai sensi”.

E’ uno spunto di riflessione che, un secolo dopo, andrebbe verificato sullo sfondo degli scenari contemporanei.

Oggi le protesi tecnologiche hanno imprevedibilmente esteso la conoscenza di ciò che oltrepassa la capacità di registrazione immediata dei nostri apparati sensoriali, soprattutto quelli delegati alla visione e all’ascolto, rendendola peraltro disponibile attraverso internet ad una parte consistente dell’umanità.

E’ comprensibile tuttavia come quella sorta di creazione con cui l’intendimento colma le lacune della registrazione operata dai sensi, abbia continuato ad operare come prima, come sempre.

Ciò che un secolo dopo può essersi modificata è invece la consapevolezza di quanto sia esteso lo scarto fra la nostra rappresentazione della realtà e ciò che davvero accade, fra ciò che normalmente udiamo e ciò che riusciamo ad ascoltare anche soltanto attraverso dei buoni auricolari, amplificando e scomponendo i suoni, oppure fra la nostra consueta esperienza visiva e ciò che riusciamo a vedere ad un microscopio o attraverso un obiettivo macro della fotocamera.

Forse è proprio attraverso il varco aperto da questa consapevolezza che alcuni artisti fin dagli ultimi decenni dell’ ‘800 si sono inoltrati, soprattutto nelle arti visive e nella musica, in una ricerca che al di là dell’orizzonte estetico ha interrogato lo ‘stare al mondo’, la nostra apertura al mondo attraverso la visione e l’ascolto.

In una intervista tratta da un documentario del 1991 John Cage diceva di preferire l’ascolto del traffico, del ‘silenzio’ delle città moderne in quanto sempre ‘diverso’ e perciò sorprendente, all’ascolto di Mozart e Beethoven, che “sono sempre uguali”.

E si capisce che non si trattava di una provocazione se soltanto si pensa ai magnifici quartetti dello stesso Cage del 1976, che sembrano emanare proprio da ottocentesche atmosfere schubertiane e beethoveniane.

Non è una provocazione quella di Cage ma un invito all’ascolto, a mettere a fuoco i ‘rumori’, ad ascoltarli anche perché unici, sempre diversi, irripetibili, a scoprirli affinché si trasformino in una scoperta.

Proprio come i pittori impressionisti, che avevano provato a vedere oltre gli ‘aggiustamenti’ e le convenzioni imposte dall’esperienza, oltre le inerzie della tradizione, “facendo del transito dell’immagine variabile dalla retina al cervello il loro punto di forza” (Il giardino e la Luna, Marco Goldin, ed. La nave di Teseo).

Forse ciò che di pratico, di essenzialmente sociale, questi artisti hanno prodotto è il loro implicito, a volte anche dichiarato invito a intensificare lo sguardo e l’ascolto, a scoprire il mondo come se non ne avessimo più memoria, disattivando l’automatismo percettivo che ci impedisce di vedere e ascoltare il presente, assimilandone fin dove è possibile la tessitura profonda.

Un invito rivolto a tutti, anche a chi non si propone di comunicare, eventualmente ricodificandola in una qualunque forma espressiva, questa esperienza sensoriale del presente. Perché è come se tutti fossimo appena venuti al mondo, con i sensi aperti e la mente vuota.

Di Bac Bac