E’ curioso come nessuno, che io sappia, si sia occupato dell’ostinato silenzio teorico di Pirandello sulla fotografia. Tanto interesse per il cinema nelle sue opere, a cominciare dal romanzo “Si gira”, ma un ininterrotto e sospetto silenzio sulla fotografia, non segnalato neppure, malgrado l’impostazione freudiana, dalla magnifica biografia di Gaspare Giudice.


D’altra parte la fotografia possiede alcune caratteristiche del perturbante freudiano, come “l’animazione dell’inanimato, il doppio, la ripetizione ossessiva, il ritorno dei morti, la sepoltura dei vivi”: ogni fotografia fa ritornare, sia pure in forma degradata, ‘inanimata’, ciò che è scomparso, si presenta come doppio, come irrigidimento e immobilità del ‘vivo’, copia che ambisce a sostituirsi all’originale.

Familiare ed estranea, come tutto ciò che è perturbante, la fotografia è la grande innominata nei testi di Pirandello e negli studi sulla sua opera.

Nei primi anni venti Adriano Tilgher riassumeva nella dialettica vita-forma il nocciolo del pirandellismo. Alcune delle sue formulazioni, peraltro ampiamente sostenute dai testi dell’autore agrigentino, potrebbero valere come descrizioni e definizioni rigorose della fotografia, della sua inevitabile falsificazione della realtà.

Scrive Pirandello nel saggio L’umorismo : “La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate… E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? – ci domandiamo talvolta allo specchio, con questa faccia, con questo corpo? Alziamo una mano, nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. Con quel gesto sospeso possiamo assomigliarci a una statua; a quella statua d’antico oratore, per esempio, che si vede in una nicchia, salendo per la scalinata del Quirinale. Con un rotolo di carta in mano, e l’altra mano protesa a un sobrio gesto, come pare afflitto e meravigliato quell’oratore antico d’esser rimasto lì, di pietra, per tutti i secoli, sospeso in quell’atteggiamento, dinanzi a tanta gente che è salita, che sale e salirà per quella scalinata!… L’arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la vita: la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?”

Uno specchio, una statua, l’arte, il cinema (la macchinetta di Serafino Gubbio operatore), ma non la fotografia. Eppure ogni scatto fotografico fissa la realtà, la vita, in una immagine caduta fuori dal tempo (a differenza del cinema) copia malriuscita, infedele, dell’originale così come lo sguardo degli altri fissa e contraddice in una maschera immutabile, in un personaggio uncinato a un momento della sua esistenza – ‘un ladro, ‘un assassino’ esemplifica Pirandello – la sua realtà contraddittoria, immersa nel fluire del tempo, suo e delle altre ‘anime’.

Se Pirandello elude il tema della fotografia, della sua inevitabile falsificazione della realtà, benché sembri descriverla e definirla disvelandone il meccanismo, un altro scrittore del ‘900, Thomas Bernhard, lontanissimo dal siciliano, pone la questione alla sua maniera, con una invettiva lucida e farneticante, provocatoria. Se Pirandello sembra non vedere forse per un eccesso di evidenza, di rimossa familiarità, Bernhard mostra e denuncia con fanatico oltranzismo.


Scrive Bernhard in Estinzione : “La fotografia mostra solo l’istante grottesco e quello bizzarro, pensai, non mostra una persona com’è stata nel complesso della sua vita, la fotografia è una falsificazione infida e perversa, ogni fotografia, chiunque la scatti, e chiunque essa ritragga, è un oltraggio assoluto alla dignità umana, una mostruosa falsificazione della natura, un atto meschino e disumano…Nelle loro foto catturano un mondo perversamente deformato, che col mondo vero non ha niente in comune se non la perversa deformazione di cui si sono resi colpevoli…Quelli che fotografano commettono uno dei crimini più meschini che si possano commettere, perchè nelle loro fotografie le persone sono marionette ridicole, stravolte, anzi storpiate fino a diventare irriconoscibili… Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita”.

La voce monologante di Estinzione è quella di un uomo che ha appreso da un telegramma della morte improvvisa dei genitori e del fratello, persone che spiega in centinaia di pagine di aver odiato per tutta la vita. Come le due sorelle e come ha odiato Wolfsegg, la località austriaca dove è nato e da cui è riuscito a fuggire. Per tutta la prima parte del romanzo il protagonista guarda le fotografie dei genitori e del fratello scomparsi e delle due sorelle ancora vive, le loro ’facce beffarde’’ in una foto scattata a Cannes.


“La foto mostra due facce beffarde, mi dissi, ma le mie sorelle hanno effettivamente quelle facce beffarde? mi chiesi. Hanno quelle facce beffarde in realtà? Non le hanno avute soltanto, quelle facce beffarde, nell’unico momento in cui è stata fatta loro la cosiddetta foto di Cannes? Forse quelle facce beffarde le hanno effettivamente avute soltanto nell’unico momento di Cannes, mi dissi, mai altrimenti, mentre ora io credo che abbiano avuto sempre e sempre soltanto quelle facce beffarde come nella foto di Cannes. La fotografia è in effetti l’arte diabolica del nostro tempo, mi dissi, per anni e per decenni e per tutta la vita ci fa vedere facce beffarde, quando invece quelle facce beffarde sono esistite una volta soltanto, un istante solo in una foto che abbiamo fatto del tutto senza pensarci, cedendo a un improvviso capriccio.”

Così Bernhard, e sembra una nota a margine del saggio L’umorismo.

Mezzo secolo separa la scomparsa del scrittore agrigentino dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo dell’austriaco. Bernhard in Estinzione non cita Pirandello (ma altri scrittori italiani si, anche Pavese). Pirandello non ha fatto in tempo a leggere i testi di Thomas Bernhard.

Ma i due sembrano pensarla allo stesso modo sulla fotografia e sul carattere disumanizzante della modernità, partecipando attraverso traiettorie diverse e in tempi diversi a una diffusa e risentita disillusione antimoderna, che ha investito sia la grande cultura reazionaria del ‘900 che alcune propaggini del marxismo.

Sarebbe interessante alla luce di questa duplice critica, inespressa in forma diretta da Pirandello, vociferante ed esplicitamente demolitrice in Bernhard, saggiare quale sia stato l’atteggiamento nei confronti della fotografia da parte di alcuni, almeno, fra i tanti illustri critici della modernità durante il secolo breve.