di Nuccio Dispenza

Palermo, foto di Tano Siracusa

L’impressione è quella di provare a svuotare un pozzo nero, e quando si pensa di esserci riusciti, quello che credevi il fondo eccolo che torna pieno di liquami. E si continua, perchè continuare si deve, non è possibile permettere che dalla bocca del pozzo esca nero che invada i nostri spazi fino ad impadronirsene costringendoci alla resa. Alla notizia di una operazione di polizia contro la mafia la sensazione è questa; questa anche oggi, con gli arresti di quindici esponenti mafiosi che dominavano la parte occidentale di Palermo, quella un tempo riconducibile alla potente famiglia Lo Piccolo. E gli uomini di oggi sono eredi e “figliocci” degli altri, quelli delle cronache meno recenti. Il filo che unisce generazioni di mafia  è di incredibile resistenza. Indagini, filmati e registrazioni che hanno portato agli arresti di oggi sono uno studio, prezioso ed impressionante, di comportamenti, linguaggi, ma anche di interessi e “giochi” della mafia di oggi, pronta a sostituirsi a quella di ieri che si era sostituita a quella dell’altro ieri. Nelle parole, nei dialoghi, nei comandi cifrati c’è un arcaico che appare come una grammatica insostituibile.                                                                                 

Sorprende e interroga la politica per il consenso dei mafiosi contemporanei, lesti a infiltrarsi nelle crepe della convivenza, più lesti dello Stato. Arrivano prima, occupano spazi e posti, come è accaduto ed accade nei giorni difficilissimi della pandemia che ha precipitato molte famiglie in un inaspettato burrone che dice loro che c’è il peggio anche alla povertà.   

                                                                                                                   

Nei giorni del lockdown l’astro nascente della nuova mafia se ne andava per lo Zen di Palermo, bussava nelle case, lasciava un pacco spesa che si era procurato coi soldi che le famiglie rastrellavano con pesanti estorsioni ad altre vittime della crisi, le imprese, costrette a pagare l’antica tassa del “pizzo”. Gli interventi finanziari della mafia sono veloci, facili, non richiedono complesse e travagliate manovre finanziarie, si decide rapidamente, perché si deve arrivare per primi, in gioco c’è il consenso, prezioso, vitale. Perchè dopo ci si può muovere con facilità, senza occhi che vedano, senza orecchie che ascoltino. Consenso con un ritorno immediato, consenso che potrà servire se si vorrà portare al tavolo di trattative “politiche”, la storia ce lo insegna con la logica del voto di scambio. Si, sorprende la cura che la mafia ripone nella politica del consenso, appare una bestemmia ma bestemmia non è: le famiglie di Cosa nostra curano la ricerca del consenso più di quanto non facciano le forze politiche. Certo, è più facile per loro, ma questo non risparmia le forze politiche, e tra loro le forze politiche che si richiamano alla tradizione democratica, devono interrogarsi sulle presenze e sulle assenze,  lì dove le presenze diventano di dirompente gravità e di irreparabile gravità le assenze. Anche in questa inchiesta, percorrendola ai lati, in quartieri come lo Zen appare più veloce e più significativa di quella dello Stato ( che si attarda, come se non avesse imparato ) la presenza del volontariato. Anche nei giorni duri del lockdown.

A contendere e contestare la presenza della mafia, c’era il volontariato, c’era l’impegno civile, che per questo è al primo posto nella lista nera della mafia. Se questo è il quadro, allora si capisce perché una scuola, un centro sociale, luoghi di aggregazione e centrali di solidarietà, possano entrare nel mirino di una violenza terroristica non etichettabile come mero vandalismo, perchè è mafia.. L’uomo chiave dell’organizzazione criminale finita in carcere ( magari non tutta, vedremo ) questa mattina era Giuseppe Cusimano, fratello di Nicolò, ora in carcere. Solide discendenze, altrettanti solidi rapporti. Era lui al centro della “catena di sostegno mafioso” che si è mossa allo Zen nei giorni in cui tra le palazzine si “accasava” la parola fame.                                                                                                                                       

Salvo Palazzolo, su Repubblica, nella prima fase della pandemia lo aveva notato quel traffico, lo aveva denunciato. Immediate le reazioni, le intimidazioni. “Giornalisti peggio del coronavirus”, la reazione di chi si era sentito osservato. E l’indicare l’informazione come un male equiparabile al virus, se non peggiore della pandemia, era un invito, un messaggio, un avvertimento anche alla gente dello Zen. E a Palermo, si sa, basta una parola per dare un ordine, senza che quella parola appaia un ordine. Si chiamano “consigli”. Del resto, il linguaggio cifrato è una costante nelle cose di mafia, lo conferma il mare di intercettazioni fatte nel corso dell’operazione. Intercettazioni anche in mare, a bordo di un gommone, uno dei tanti che si vedono nel golfo di Palermo o di Sferracavallo, nelle belle domeniche d’estate. I mafiosi si riunivano su uno di quei gommoni, per parlare e disporre in libertà. Ritenevano, non mettendo nel conto chi lavora per svuotare quel pozzo nero che sembra infinito, senza fondo.

Di Bac Bac