di Guido Ruotolo

Fu terribile la fine del decennio del secolo scorso. Avevamo cominciato a vivere la stagione dei flussi migratori di popoli dolenti, affamati, in fuga da guerre e carestie, da violenze e discriminazioni religiose. Gli stessi albanesi, che erano stati per tutto il decennio i nostri “clandestini” più numerosi, si stima che in quel decennio almeno 250.000 cittadini del Paese delle Aquile raggiunsero l’Italia.
Uscivano dal Medio Evo in cui erano stati costretti dal regime di Henver Hoxha e cercavano disperatamente di voltare pagina, cercando libertà e lavoro in Italia.
Quel canale che si era aperto nell’Adriatico a partire dai primi anni Novanta, in realtà raccontava di una pentola a pressione che stava per esplodere, che avrebbe portato vittime e carneficine. Era già partito da tempo l’esodo silenzioso della diaspora del popolo curdo, bastonato dai turchi, diviso tra diverse nazioni, in cerca di un futuro in Europa, Germania soprattutto. E in migliaia arrivarono in Puglia sulle carrette del mare, i gommoni, qualsiasi bagnarola in grado di galleggiare, o nascosti nelle intercapedini dei tir provenienti dalla Grecia sulle motonavi di linea e attraccati nei porti dell’Adriatico.


Prima la guerra contro la Serbia – che scatenò in Kosovo il conflitto etnico e religioso. E questo ebbe come effetto “collaterale” un esodo biblico verso l’Italia. Almeno settanta, ottantamila profughi (molto spesso però si trattava di albanesi che fingevano di essere kossovari) attraversarono l’Adriatico.
Poi, dopo il maledetto 11 Settembre, si accentuarono due fenomeni: le guerre globali al terrorismo, e i regimi che si sbriciolavano. In Medio Oriente, anche per le guerre dichiarate dalle coalizioni internazionali (Afghanistan e Iraq). Ma nel 2011 nell’Africa che si affaccia sul Mediterraneo esplosero le “primavere”, alcune, come la Libia di Muammar Gheddafi, furono provocate e aiutate da potenze straniere.
Il segno della immigrazione cominciava a cambiare i connotati. Dagli albanesi, popolo affamato, ai ricchi siriani che fuggivano dalla guerra tentata e fallita per abbattere il despota Assad, dagli abitanti di quel Corno d’Africa dilaniato da guerre etniche e religiose ai migranti economici dell’Africa subsahariana.
Tutto questo è storia, anche se va ricordato che la peculiarità italiana sta soprattutto nell’essere stato un paese di transito della immigrazione “arcobaleno”. Siamo stati un po’ come un setaccio. Abbiamo selezionato, scelto, diviso i migranti. Che non sono tutti la stessa cosa.
A Lampedusa o a Otranto sono sbarcati disperati, proletariato e sottoproletariato incapace di proporsi come forza lavoro. E poi ex detenuti, trafficanti, esponenti di una criminalità predatoria, come dimostrano i dati del ministero di Giustizia che documentano che un terzo della popolazione carceraria è composto da cittadini extracomunitari. Spaccio e traffico di droga, rapine e furti.
Dunque, tra il 1998 e il 1999 a pochi chilometri dalla costa adriatica si consumò la guerra della NATO, dell’Europa, contro la Serbia di Milosevic. Per rendere autonoma la provincia del Kosovo a maggioranza di etnia albanese, in fuga dal regime di Hoxha “ospitati”, “accolti” dalla Jugoslavia di Tito.
E in pochi decenni la percentuale demografica in Kossovo si ribaltò, con l’esplosione della presenza albanese che ridusse al lumicino quella serba. E per i serbi il Kosovo era parte fondante dello Stato, della Jugoslavia federale del maresciallo Tito prima e di Milosevic dopo.
Unico popolo che celebra l’anniversario della sconfitta che produsse per secoli rovina e sottomissione. Kosovo Polje, nel cuore del Kosovo, nella piana dei Merli, vide il 15 giugno del 1389 l’esercito serbo sconfitto dall’esercito ottomano.
E a Kosovo Polje, nel seicentesimo anniversario (1989) Milosevic tenne un discorso in cui prefigurò quello che sarebbe successo dieci anni dopo.
Ma il Kosovo è ancora oggi il cuore pulsante degli ortodossi serbi come testimoniano le decine di monasteri ortodossi sparsi nella regione, alcuni distrutti dalla collera albanese.
Inutile recriminare. La NATO ha bombardato la Serbia, liberando così il Kosovo che, conquistata l’autonomia, si è dichiarato indipendente nel 2008.

Vent’anni dopo quella guerra, abbiamo ormai la certezza che i kossovari albanesi si sono macchiati degli stessi crimini contestati ai serbi.
Quella guerra fu terribile per il costo di vite umane. I serbi cacciarono centinaia di migliaia di albanesi dalla loro terra, dalle loro case. Così fecero gli albanesi con i serbi, e non solo. Finirono per essere cacciati, violentati, trucidati anche i rom, accusati di aver “servito” i serbi.
Il nazionalismo etnico fu l’ “infezione” che scatenò subito dopo, a partire dal maledetto settembre del 2001, terrorismo e guerre.
Perché il Kossovo racchiudeva in scala il terribile conflitto tra musulmani e cristiani (ortodossi) che già aveva sconvolto le coscienze europee per i massacri etnici nella Jugoslavia degli inizi degli anni Novanta.
L’Albania che conosceva il suo Rinascimento dopo l’oscurantismo e il Medio Evo del regime comunista, vedeva fiorire una rete di moschee finanziate da una banca della famiglia di Osama bin Laden, “arabi ricchi sfondati”.
Oggi, vent’anni dopo quella guerra, a L’Aja si processano i colpevoli kossovari di crimini di guerra. Raccontare la storia e le ragioni degli uni e degli altri non sanerebbe le ferite, i lutti, le tragedie che il conflitto stesso ha provocato. Ma è un dovere morale per noi che siamo stati corresponsabili insieme agli alleati occidentali a portare al potere torturatori e criminali.
Tra i tanti vissuti, solo due episodi del dopoguerra del Kossovo, dopo la firma degli accordi di Kumanovo (Macedonia), riaffiorano dai ricordi del cronista.


Io, che all’epoca lavoravo per il Manifesto, ed Enrico Fierro dell’Unità ci trovammo sul ponte di Kososkova Mitrovica quando esplosero i primi conflitti etnici tra serbi e albanesi. Al di là del ponte c’era un quartiere abitato prevalentemente da serbi, il resto della città era soprattutto albanese. Ricordo scene di inseguimento dei serbi, sempre di più rintanati come topi nelle loro case. E le forze di interposizione, credo che fossero tedesche, che sul ponte controllavano i documenti di chiunque volesse passare oltre.
Quel ponte rappresentò meglio di qualsiasi discorso l’inizio della pulizia etnica albanese.
Ricordo una sera. Fuoco. Odore acro, fumo, fiamme alte. Ci affacciammo dalla finestra della nostra casa. Pristina era buia e nell’oscurità vedemmo i fuochi di case bruciate. Non solo di notte, assistemmo a questo scempio anche di giorno. Erano le case dei rom. Che in Kosovo non erano nomadi ma stanziali. Commercianti, impiegati statali. Insomma erano parte integrante della società.


Vent’anni dopo mi interrogo sul come ci sia sfuggito, del perché non siamo stati in grado di intercettare quella operazione di pulizia etnica che si stava consumando in quelle settimane sotto i nostri occhi. Arresti, sparizioni, torture, omicidi, traffico di organi umani. Solo oggi, con i processi avviati a L’Aja per crimini contro l’umanità, stiamo avendo le prove della complicità morale della NATO, e, per quello che ci riguarda, dell’Italia, nel aver consegnato un paese a un gruppo di trafficanti di droga, armi, organi umani guidati dal comandante Hashim Thaci, diventato negli anni ministro, capo del governo, capo dello Stato. E solo dall’inizio di novembre è finito in carcere a L’Aja con accuse gravissime di crimini contro l’umanità.
Solo una testimonianza recente, che risale al 2008, otto anni e passa dopo la “vittoria” di Kumanovo, una inchiesta della magistratura europea, del Procuratore italiano di Eulex (la missione europea in Kosovo), Francesco Mandoj, conferma l’esistenza di un traffico di organi.


Bezalel Staffan, israeliano di Tel Aviv, aveva bisogno di un trapianto di reni. In Turchia, tramite la moglie Ester, Bezalel compra un rene da un cittadino turco, Ylmaz Altun. Il trapianto sarebbe stato fatto a Pristina, capitale del Kosovo, presso la clinica Medicus.
Costo preventivato del rene, 9.000 euro.
Il 30 ottobre del 2008 donatore e ricevente partono chi da Istanbul chi da Tel Aviv per raggiungere Pristina.
Ylmaz Altun aveva incontrato tale “Ismail” alla fine dell’estate del 2008, che gli aveva promesso 20.000 dollari. Prima di partire Ismail consegna ad Altun una lettera di invito della clinica Medicus da presentare alle autorità di immigrazione in Kosovo.
Arrivati in clinica, il giorno dopo si svolge l’operazione.
Il 4 novembre Altun riparte per la Turchia ma all’aeroporto di Pristina viene fermato e interrogato da ufficiali di polizia che indagavano sul traffico di organi che si consuma alla clinica Medicus. Arresti, e soprattutto la clinica viene sequestrata dal procuratore Mandoj.
La clinica Medicus aveva sede anche a Prizren, una città al confine con l’Albania. Il suo dirigente, Lufti Derrvishi, era amico di Hashim Thaci, ex comandante dell’Uck, l’esercito di Liberazione del Kosovo, e all’epoca presidente del consiglio. Thaci e Derrvishi abitavano nello stesso palazzo.


Kosovo e Albania. Sotto la cenere delle indagini c’è un fiume di lava che collega i due paesi. Storie terrificanti, deportazioni dall’uno all’altro paese. Fosse comuni e sparizioni. E traffico d’organi. Se ne è occupato il Consiglio d’Europa, i giudici dell’Aja. Ma per l’Italia e l’Europa conviene avere questi paesi sotto tutela. È il prezzo da pagare per la stabilità geopolitica dell’area.

foto di Guido Ruotolo

Di Bac Bac