di Nuccio Dispenza

I manichini senza volto delle vetrine degli stilisti rinviano alle figure di De Chirico. Il manichino di lui, quello di lei, come “Ettore e Andromaca”. Opera straordinaria, era il 1931. Anche queste figure, alle spalle e attorno, immerse in una dimensione atemporale dettata dallo spazio vuoto. Roma deserta quando la notte è ancora lontana, in una città dove la notte spesso è più chiassosa della sera.
Alla vigilia del “tutti a casa”, la città riprende il vestito che inaspettatamente aveva dovuto  indossare in primavera. Lo aveva tirato fuori dall’armadio delle cose bellissime e dismesse, che si pensava dismesse per sempre. Tirate fuori a primavera, che sapevano di naftalina, ora nuovamente da indossare. 

I manichini senza volto delle vetrine inutilmente luminose, lungo la strada dritta e deserta che porta alla scalinata di Trinità dei Monti sembrano davvero annunciare un’ Apocalisse. Domani si interrompono i riti delle settimane profane, riti che ci hanno insegnato a pensare indispensabili.        Il black out è domani, ma già stasera sembra si sia voluto anticipare questa Apocalisse dei nostri tempi, senza aperitivo e dopo cena.
Roma si prepara a ritornare bellissima, i fili d’erba sentono che potranno tornare ad affacciarsi indisturbati tra un sampietrino e l’altro. Le piazze torneranno ad essere anche prato.
La grande bellezza recuperata solo per la paura dell’invisibile “peste”.
Roma, domani a quest’ora saremo in “coprifuoco”. Coprifuoco, parola scippata alla memoria, quando quella parola era tutto il peso che gli si dava. 
Arriveremo alla Roma di Fontana di Trevi, di piazza del Popolo, di Campo dei Fiori, dei Fori e del Colosseo, di via Panisperna.                    Cominciamo da Ponte Milvio, palco delle più recenti serate della movida romana.                                                                                               

Movida, parola usata a sproposito, chissà quanti sanno a chi l’abbiamo scippata. Era la Spagna che usciva dal buio del franchismo, e che si riversava in strada felice per la libertà conquistata. Movida era vitalità, sociale, culturale, artistica. Movida era il ritorno alla democrazia. Quella di oggi, ora acrificata alle ragioni della vita, suona nota stonatissima.
Ponte Milvio un tempo era una spianata che si immergeva nel Tevere. Qui approdavano le barche che portavano il pesce dal mare, gli ortaggi dalla campagna. Fino a un paio di decenni fa, a testimoniare quell’antica vocazione, un bel mercato. Fu sacrificato alle esigenze della “movida”, trasformato in parcheggio. Del Ponte Milvio di un tempo, testimone sopravvissuto non si sa come, “Pallotta”. Era una trattoria con un bel pergolato dove si mangiavano i tagli più umili del macello.L’antica trattoria c’è ancora, sopraffatta dai nuovi locali tutti uguali, che di tanto in tanto cambiano di mano, cambiano nome e insegna. Qui un locale arriva a costare ventimila euro al mese d’affitto. Ponte Milvio è il cuore nero di quella Roma Nord che le cronache raccontano nelle mani di Massimo Carminati. Google ti ricorda la sua professione: criminale. Ti rinvia alla banda della Magliana, ai Nuclei Armati Rivoluzionari, a Mafia capitale. I tempi di un’altra peste, anche quella invisibile, meglio non vista. Un filo nero nella storia della città.


Anche a Ponte Milvio la movida dei nostri tempi si spegne. Solo un gruppetto di sette ragazzi sembra non demordere. I locali sono chiusi, non si beve. La piazza è attraversata da tre cani: un barboncino, un bassotto e il mio border collie. Si ferma una 500, una ragazza abbassa il vetro e mi chiede se ho visto un pastore tedesco, smarrito: “Se lo vede…Ha il mio numero inciso sulla medaglietta…E’ buono…”.
Di sera movida, di giorno, quando c’erano le partite di calcio, Ponte Milvio stazione di branchi di tifosi, ora biancocelesti, ora giallorossi, gli uni contro gli altri armati. Qui a stazionare ore, ad attendere i cancelli aperti dell’Olimpico. A bere, gli uni ad insultare gli altri, assenti. Sul muro, all’ingresso della piazza, una scritta racconta questa vocazione: “Atalanta merda”, testimonianza di una accoglienza inequivocabilmente cattiva. La scritta è lì da anni, nessuno che abbia mai pensato di cancellarla.
Ponte Milvio, lo stadio Olimpico, la stele con scritto DUX, il fiume di Roma. Lungo il Tevere, ecco i primi palazzi del potere. Il primo, il Palazzo della Marina, illuminato dai colori del tricolore. Nei giorni bui del rapimento e poi dell’uccisione di Aldo Moro qui si tennero le anomale riunioni di una anomala task force. Attorno allo stesso tavolo Cossiga e Licio Gelli. Quella era davvero una notte buia della Repubblica.

Il Tevere alle spalle, verso via del Corso. Qui c’è la movida dei ragazzi che in centro ci vengono col trenino o in metropolitana. Una, due sere, con la borgata alle spalle. A metà di via del Corso, ecco l’Hotel Plaza, irrimediabilmente chiuso. E a suggerire che la chiusura è già lunga e sarà lunga ancora, una catena e un lucchetto sbarrano l’ingresso ai bei saloni dominati dal velluto rosso, alla scalinata che si apre con un leone marmoreo da cinema. Il Plaza fu l’hotel di una gran fetta di potere politico della prima Repubblica. Qui stazionava la carovana di De Michelis potente ministro, qui “scendevano” tanti potenti politici siciliani, qui anche tante belle donne. La suite in alto, per attori e attrici che si affacciano a salutare i ragazzi di borgata. Poi per il Plaza è stato il tempo dei ricchi in trasferta shopping, arabi e russi. Ora, a sbirciare dentro, solo ombre di un tempo archiviato per sempre. 

Via Condotti, laggiù la scalinata di Trinità dei Monti. Vetrine e vetrine, senza interruzione se non per fare spazio alla porticina chiusa, triste, del Caffè Greco, sempre in procinto di irrimediabili sigilli, senza sconti per la sua nobile storia. Avventori – come si diceva un tempo – della statura di  Apollinaire, Baudelaire, Berlioz, Vitaliano Brancati, Byron, Cardarelli. E andando più indietro, lo stesso Giacomo Casanova. L’elenco è smisurato. Ah, ci venne anche De Chirico.
La cosa che colpisce in questa sera che non è ancora notte,  è che per recuperare il bello oggi si debba attraversare la “peste”. Ce lo suggerisce Trinità dei Monti, ce lo canta la vicina Fontana di Trevi. Più avanti anche piazza Navona e Campo dei Fiori.
“E’ Dante!” dice, perentorio, un ragazzo alle ragazze che con lui attraversano la piazza per poi sparire dietro l’angolo con la fontanella. Non mi va di correggerlo, dirgli che è Giordano Bruno quello che campeggia su Campo dei Fiori. Vai con Dio, e con Dante…
Campo dei Fiori così è bellissimo. I sampietrini lucidi, dorati dalle poche luci gialle, i gabbiani che scendono, che non sono costretti a volarci ininterrottamente sopra, minacciosi.
Giro le spalle al Campo quando davanti mi passano due ragazze su un monopattino elettrico. L’una a guidare, l’altra alle sue spalle a filmare col telefonino. Ondeggiano nell’immenso spazio vuoto della piazza, disegnano un’onda. 

foto di Nuccio Dispenza
 

Di Bac Bac