Nel dibattito pubblico in città, tiene banco in questi giorni la difesa della Valle dei Templi da un improvvido attacco di ambientalisti improvvisati (parafrasando Eugenio Scalfari li si potrebbe chiamare ambientalisti alle vongole) che hanno lamentato, davanti alle telecamere di Mediaset, un presunto inquinamento visivo causato dalle pale eoliche situate sulle colline che circondano Realmonte. Nel servizio giornalistico, grazie al teleobiettivo, l’immagine delle pale, lontane circa 15 km dalla Valle dei Templi, viene schiacciata sui templi, dando la sensazione, a chi non conosce i luoghi, che si trovino proprio a ridosso della zona archeologica, a due passi dal tempio della Concordia. Il servizio ha suscitato molte giustificate polemiche di cui si è fatto carico con molta onesta l’agrigentino Carmelo Sardo, tra i redattori dei servizi giornalistici di Mediaset, per una doverosa correzione di rotta, invitando il sindaco Franco Miccichè ai microfoni dell’emittente per un intervento chiarificatore.   

Quindi, incidente chiuso, ma meritevole di alcune considerazioni di segno opposto.  

Cominciamo con le note negative. Nella foga della difesa della Valle, non pochi hanno esagerato nel descriverla immacolata e nell’assegnare agli agrigentini il ruolo di difensori granitici, paladini vigili e orgogliosi nel tutelare l’integrità delle bellezze naturali e delle testimonianze architettoniche di quelle che furono le splendide città di Akragas e di Agrigentum. 

Purtroppo, le cose non stanno proprio così. Oggi la Valle non è integra entro i confini della zona archeologica definiti dal decreto Gui-Mancini emanato il 16 maggio 1968. Provvedimento emanato dopo la frana del 19 luglio 1966, che mostrò all’Italia intera l’esempio orribile di disordine urbanistico realizzato in pochi decenni con lo scivolamento della città nuova verso i templi.  Quel decreto, fortemente voluto dal mondo della cultura nazionale, fu strenuamente avversato dall’opinione pubblica agrigentina e dal suo ceto politico-amministrativo, perché ingabbiava la sfrenata libidine edificatoria di massa del secondo dopoguerra. Tanto che un sindaco del passato (un passato, comunque, non molto lontano) ebbe a lamentarsi dei vincoli di inedificabilità della zona archeologica che “frenavano la naturale tendenza degli agrigentini ad espandersi verso il mare”. Ma di quei vincoli gli agrigentini non si curarono molto e, grazie alla complicità di una classe dirigente incolta e avvezza all’intermediazione clientelare, disseminarono la valle di circa 650 costruzioni abusive. I peggiori obbrobri edilizi consumati negli anni ‘70 e ‘80 sono ancora presenti in brutta evidenza all’interno della “zona A”: dalle case edificate sulla collina di San Calogero Bianco, di fronte al tempio di Giunone e alla principale porta di ingresso di Akragas, la porta Gela; agli edifici costruiti nella zona di Maddalusa, che hanno privato il parco della sua continuità territoriale con il mare, elemento fondamentale della ubicazione della città greca.  

(Copertina di Epoca dopo la frana – Ecco come ci vede la cultura nazionale)

Nel 1985, grazie alla legge di sanatoria nazionale, si sviluppa la polemica aspra degli abusivi, sempre spalleggiati dagli amministratori agrigentini del tempo (alcuni proprietari di case abusive), sul Decreto del presidente della regione Rino Nicolosi, chiamato a perimetrare l’istituendo Parco Archeologico. Per la maggioranza degli agrigentini le esigenze di tutela della Valle dovevano passare in secondo piano rispetto a quelle dello sviluppo economico e sociale e, soprattutto, di fronte alla necessità di conservazione di un patrimonio edilizio realizzato in barba alle leggi. 

In quegli anni a difendere l’integrità della zona A e l’intangibilità dei suoi confini, a livello locale furono solo la Legambiente e, sul piano istituzionale, la sovrintendenza guidata da Graziella Fiorentini. Si riuscì nell’impresa, grazie anche alla capacità del leader ambientalista di allora, Peppe Arnone, di spostare il dibattito sulla tutela della Valle in ambito nazionale, coinvolgendo il mondo della cultura al massimo livello, con l’aiuto del segretario di Legambiente Ermete Realacci. Un ruolo importante ebbe, poi, uno studioso autorevole e influente come il prof. Ernesto De Miro, archeologo di fama internazionale, già sovrintendente ai beni culturali della provincia di Agrigento. E solo grazie all’attenzione degli intellettuali e degli studiosi che nel 1991 il presidente della regione Rino Nicolosi potrà respingere le pressioni del mondo politico siciliano, attestato su posizioni retrograde, emanando il decreto istituivo del “Parco archeologico della Valle dei Templi”, senza apportare alcuna modifica ai confini della zona A, come definiti nel 1968 dal decreto interministeriale Gui-Mancini.   

(Espansione edilizia di Agrigento nel secondo dopoguerra)

Il decreto del 1968 è stato sicuramente un argine importante all’abusivismo, che purtroppo non è stato sradicato, ma continua ancora oggi, sotto gli occhi sbadati del comune di Agrigento: da ultimo a Maddalusa, zona di inedificabilità assoluta, è stata sequestrata una mega struttura (albergo-ristorante-parcheggio in spiaggia-strada pubblica privatizzata) totalmente abusiva.  

Quindi, molti agrigentini e i loro rappresentati politici hanno poco da gonfiare il petto, riempiendosi di orgoglio per una tutela che li ha visti in passato protagonisti dalla parte sbagliata. 

La nota positiva che si può trarre da questa vicenda, è sicuramente la constatazione che oggi il Parco Archeologico è percepito dalla stragrande maggioranza della città non più come un problema, ma come una grande risorsa attorno a cui costruire il futuro economico e sociale di Agrigento.  

Ma per cogliere al meglio le potenzialità economiche ed essere moralmente degni depositari dell’enorme patrimonio culturale che ci è stato lasciato in custodia, dovremmo anche essere capaci di una severa autocritica sulle condotte del recente passato e, soprattutto, di mettere in atto le azioni necessarie per riparare le ferite inferte al nostro territorio, Valle dei Templi compresa. 

Questa, almeno sulla carta, è una delle riflessioni qualificanti inserite nel progetto che ha vinto il titolo di “capitale della cultura”.  Però, almeno per ora, non sembra riscuotere l’attenzione principale degli attori che ruotano attorno a questo evento: tutti si affollano e si accapigliano nel richiedere posti e potere per gestire le risorse che affluiranno nella tanto chiacchierata Fondazione.  

La riflessione culturale può attendere