di Daniele Rizzo

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

Lo scorso è stato il secolo della definitiva rottura dei confini disciplinari tra le arti. A essere investiti

da questa rivoluzione sono stati canoni e codici, pratiche e linguaggi, la cui “permanenza” tra gli

artisti contemporanei può essere spiegata in riferimento a chi, rimanendo ancorato a metodologie e

concetti del passato, ritiene che si possa essere tutt’al più nani sulle spalle dei giganti, o a chi,

animato da una carica eretica e irriverente, considera necessario fare tabula rasa degli antichi fardelli.

Tra le due posizioni, ovviamente, esistono innumerevoli sfumature e, in particolare nel nuovo

millennio, non è affatto detto che fra esse ci sia una dialettica di esclusività – o l’uno o l’altro, tertium

non datur. Tutt’altro. Infatti, le intenzioni estetiche più innovative e consapevoli riconoscono la

fondamentale e fertile importanza della contaminazione scenico-drammaturgica e dell’osmosi tra

forme e contenuti tradizionali e forme e contenuti attuali, ma si tratta di tendenze non ancora del

tutto istituzionalizzate, dunque, che possono rimanere ai margini di contesti periferici come quelli

della città dei Templi. Fatto che, in verità, sorprende, se si pensa che proprio questa terra ha dato

alla luce una delle più straordinarie e laceranti operazioni di contestazione dell’antico in ambito

drammaturgico. Il riferimento, ovviamente, è a Luigi Pirandello, personalità enorme che ancora

oggi, purtroppo o per fortuna, fa “scuola”.

Per questo, assistendo alla stagione invernale del Teatro Pirandello, non ha sorpreso scoprire la

presenza unicamente di artisti da “cartellone”, o perché noti al pubblico locale o perché a quello

televisivo. Nessuna spaziatura, né dal punto di vista della “scommessa”, né dal punto di vista delle

pratiche artistiche: ad Agrigento, si assiste unicamente ed esclusivamente a spettacoli di prosa. Il

massimo cui si può aspirare è “incontrare” nei luoghi delle istituzioni eventi in luoghi parzialmente

convenzionali, all’aperto, durante una cena o in un museo, caratterizzati da una moderata dose di

ibridazione linguistica. Il caso dello spettacolo L’anello dal passato, di Marco Savatteri, uno dei

principali animatori culturali della città, ben rappresenta la condizione di un contesto ancora al di

qua del guado di un percorso verso la contemporaneità (teatrale o culturale).

L’idiosincrasia tra il modo in cui viene presentato e quanto esperito è esemplare nel restituire come

le forme legate al contemporaneo siano sostanzialmente “inesplorate”, vuoi perché troppo audaci

per un pubblico poco “attrezzato”, vuoi perché non nelle corde dei suoi esecutori materiali (registi,

drammaturghi, attori).

L’anello dal passato è «un’opera teatrale inedita che offre un’esperienza immersiva unica,

completamente ispirata al Museo». Effettivamente inedita, essendo testi e musica originali, e

ispirata al Museo, nonostante una certa confusione nel dipanare il fil rouge della narrazione (il

parallelismo tra la storia dell’anello e i reperti archeologici), quello che perplime è la definizione di

«un’esperienza immersiva unica». Sorvolando sulla questione dei contenuti, è su questo aspetto

formale, dunque sulla composizione e sulla presentazione scenica, che si palesano le difficoltà di un

territorio culturalmente arretrato dal punto di vista delle arti performative.

I contenuti, infatti, trovano «ispirazione […] dal suggestivo “anello di Teano”, uno dei pezzi più

pregiati della collezione del Griffo», il che nobilita l’intenzione del regista Marco Savatteri di fare di

un elemento oggettivo (l’anello), il pretesto di un’operazione finalizzata a far conoscere i luoghi del

Museo attraverso la loro drammatizzazione. Tuttavia, ci si chiede se effettivamente, a partire da

questa «fonte di ispirazione», sia riconoscibile ne L’anello dal passato «una narrazione coinvolgente

che coinvolge tutti i tuoi sensi».

Quello immersivo è un esempio di teatro post-drammatico celato sotto le vesti di un allestimento

apparentemente tradizionale. Si tratta di una realtà drammaturgica tipicamente anglosassone che

oggi ha solide radici anche in Italia, in particolare per merito di Project XX1, la compagnia di

Riccardo Brunetti. Quello immersivo non è il banale tentativo di ambientare uno spettacolo in un

contesto non teatrale. Tantomeno può essere semplicisticamente intesa tale una drammaturgia

itinerante. Dunque, dal momento che si parla di spettacolo immersivo, da L’anello dal passato

ci si aspetta la restituzione di una grammatica scenica coerente – ovviamente non in maniera rigida – al

riferimento teorico da cui si enuclea.

Eppure, l’intreccio lineare di sequenze in loop contestualizzate a seconda degli interni e

l’impossibilità di scegliere liberamente il percorso di esplorazione scenico-museale sono scelte che

privano lo spettatore de L’anello dal passato del piacere e della ‘responsabilità’ di una linea

narrativa da individuare in maniera anarchica e secondo la propria intima curiosità, che sono gli

elementi cardinali di ogni allestimento immersivo.

L’uso barocco dei costumi e l’adagiarsi su una tradizionale struttura narrativa, come anche la

decontestualizzazione dei momenti coreografici (puramente riempitivi) o l’insignificanza degli

inserti rappresentati dai personaggi parlanti-ma-non-protagonisti che si incontrano tra una stazione e

l’altra, inficiano la capacità della pièce di installarsi in modalità autenticamente site-specific,

interattiva e totalmente aperta alla libera esperienza dello spettatore. Quello che succede invece, è

trovarsi ammassati in locali “normalmente” scenografati dai reperti storici, che ben poco ampliano

la possibilità che il pubblico torni perché le potenzialità ermeneutiche offerte dall’esplorazione

individuale sono sostanzialmente identiche a quelle offerte da una normale visita al museo.

Se il singolo non può giocare con i performer, se l’allestimento non si incunea tra le caratteristiche

uniche di una location,se non si suggestiona la possibilità di poter incidere sul corso degli eventi si

rende di fatto inerte quello che è il cuore pulsante dell’immersività, vale a dire la personalizzazione

del meccanismo di ri-costruzione e comprensione della trama narrativa da parte di astanti

compartecipi dell’ecologia drammaturgica.

L’evento teatrale immersivo dovrebbe aprirsi al mistero con cui ognuno vive l’atto spettacolare nei

termini di esperienza reale oltre che artistica, ma quella de L’anello dal passato rimane una

modalità semplicisticamente ancorata a un modalità di parola e a forme stantie di rappresentazione

mimetica, che privano della possibilità di edificare nuovi universi di senso partendo

“razionalmente” dalle proprie emozioni di vivere un momento di cui si è autentici protagonisti.

Certo, avrebbe probabilmente aiutato una maggiore qualità performativa, mentre si è avuta

l’impressione di una certa “macchinosità” nel fluire del percorso dovuta a personaggi la cui parola

era poco comprensibile o i cui movimenti erano particolarmente artefatti. Certo, si può comprendere

come la regia abbia voluto privilegiare la semplicità comunicativa alla complessità culturale.

La questione, però, è più complessiva e investe la necessità che, non solo in vista di Agrigento Capitale

della Cultura 2025, questa città possa finalmente ri-conoscere le forme sceniche in cui il resto del

Pianeta è da tempo traghettato e di cui ignora la portata catartica ed emancipatrice.

Di Bac Bac