di Tano Siracusa

Oggi è il terzo giorno che la persiana del balcone di fronte casa mia rimane chiusa. La mia finestra inquadra un edificio di mattoni rossi, dal quarto all’ottavo piano. Vi si affaccia un solo balcone, con le persiane verdi.
La mia finestra è l’unica della casa che abito adesso, e quel muro di mattoni rossi sul quale si affaccia il balcone è tutto ciò che vedo. Oltre la grande stanza imbottita di libri e il piccolo bagno con la lavatrice. Gli altri due elettrodomestici sono un frigorifero e un vecchio computer, dove ogni tanto scrivo una mail che non invio a nessuno. O qualche volta a me stesso.

Mi sveglio con la prima luce, faccio un’ora di ginnastica, la doccia, poi mi siedo al tavolino davanti la finestra a leggere. Romanzi, solo romanzi.
Ogni tanto sollevo gli occhi dal libro e guardo se hanno spalancato le persiane sul balcone di fronte. L’aprirsi e il chiudersi di quelle persiane è l’unico palpito di mondo, di tempo del mondo, che mi sono concesso di vedere. Di cui sono testimone.
Ogni tanto chiudo gli occhi e ricordo i risvegli di prima, nella vecchia casa piena d specchi dove vivevo.

Erano risvegli ogni mattina più faticosi e frenetici, come se la sera avessi bevuto, anche se ormai avevo smesso da mesi, forse da anni; vedevo le cornici – non i quadri – i colori delle cornici, quella rossa, quella bianca su un ritratto a olio, poi vedevo le mie gambe che scendevano la scala di ferro battuto.

Un’ora più tardi, seduto a un bar, non avrei potuto giurare di avere visto anche lo scorriamo della ringhiera e il soggiorno in basso, sussultante. Se avessi provato a ricordare, a recuperare un ricordo visivo del risveglio, avrei colto un balenare di quadri e di finestre aperte sul bianco o sull’azzurro del cielo. E il roteare in alto delle rondini.

Poi le strade vuote. A quell’ora di mattina la gente dormiva, oppure barcollava accanto al letto, stupita di essere ancora viva.
Nella luce grigia del viale alberato qualcuno correva lungo i marciapiedi, qualche gatto si nascondeva sotto una macchina posteggiata. Stavano diventando tutti invisibili.
Le macchine posteggiate erano come gli alberi che fiancheggiano le strade, incorporate nel paesaggio come elementi naturali, come piante di gomma, ferraglia e plastica. Automobili sui marciapiedi, con i loro occhi di vetro che sporgevano dalle scale, incastrate fra i ruderi di palazzi crollati. Non si vedevano.
Non si vedevono più i sacchetti gonfi di rifiuti che erano dappertutto, sui marciapiedi, accanto e sotto i monumenti, due materassi al centro di un bivio in periferia; ma tutta la città, tutto il mondo era una periferia, disseminata di mobili, vestiti, scarpe, piedi, membra di manichini, membra quasi umane, dissepolte nei massacri che tracimavano dalle grandi discariche del pianeta. Tutta quella roba superflua, sfasciata, maleodorante, di troppo, scarti di uomini e cose di cui non si sapeva che fare, dove mettere, come farla sparire.

Non c’era niente di buono da vedere ogni mattina, e ormai nessuno vedeva più niente. Per abitudine dicevo allora agli amici, perchè l’abitudine rende invisibili anche le proprie mani.

E non c’era niente di buono da vedere e sentire neppure sugli schermi, sui giornali, alla radio. Solo catastrofi, guerre, inondazioni, epidemie, siccità, masse di disperati in fuga, di quasi uomini alla deriva, e la cattiveria come una bandiera, come la verità nascosta e finalmente rivelata, come una patria grande e nuova che diventerà impero, mondo.

Svegliarsi era aprire gli occhi sulla città invasa dalle automobili e sommersa dai rifiuti, su tutta la spazzatura sparsa nelle vie della città e nel mondo. Non vedevo altro, e sentivo quel rumore che cresceva, il tumulto di una massa sterminata inebriata dai suoi stessi veleni che si avvicinava, avanzava a passo d’oca verso l’abisso.
Era durata un mese quella specie di allucinazione, ero depresso credo, ma un amico dottore, l’unico dottore che frequentavo, mi prendeva in giro. Anche lui sembrava non accorgersi, non vedere.


Era successo poco prima del ritiro. Poco prima di cambiare casa e decidere di non uscire più. Il cibo lo lasciano sul vassoio dopo tre squilli del campanello. La stessa persona ritira i rifiuti che lascio sul pianerottolo. Gli appartamenti accanto sono disabitati.

Ogni tanto chiudo gli occhi e rivedo com’era prima, com’era fuori, com’era svegliarsi e uscire, comprare i giornali, e poi la tv internet i social la radio, il rumore del mondo, i suoi luccicanti riflessi. Tutto spento. Cancellato. Qui si sente solo un brusio lontano, ovattato, uniforme.

Apro gli occhi e oltre la mia finestra vedo la muraglia di mattoni rossi, il rettangolo del balcone con la ringhiera verniciata di nero e quello delle persiane verdi. Sono chiuse. È il terzo giorno che sono chiuse, da quando nessuno viene più a suonare il campanello. O forse sono passati cinque giorni. Il figorifero è quasi vuoto.

Allego un video girato allora, quando mi svegliavo e uscivo a precipizio dalla casa degli specchi. Con quella musica di Andrea che suonava un’antenna.

Dopo averlo rivisto ho scritto questa mail, che probabilmente domani invierò a me stesso.

Di Bac Bac