di Pepi Burgio

Fedeli alla metafora hegeliana della nottola di Minerva , per cui la qualità intellettuale degli uomini si esplica in una riflessione che interviene soltanto quando un processo si è già compiuto, e in accordo a quanti sostengono che sulla guerra in corso è possibile l’incrinarsi di consolidati rapporti, riferiamo del ragionamento svolto un secolo fa da Sigmund Freud sul tema della guerra.

Perché la guerra? è il titolo dato al carteggio Einstein-Freud del 1932, contenente anche un breve scritto di Freud del 1915, Caducità , in cui con ispirata finezza letteraria il medico viennese coglie nella caducità del bello non un suo svilimento, quanto piuttosto quella “limitazione della possibilità di godimento che ne aumenta la preziosità”; e infine un importante saggio del 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte , del quale diremo successivamente.

Il carteggio Einstein-Freud è costituito nella sua forma essenziale, ovvero da due sole lettere; ma la statura dei due personaggi rende di scarsa importanza il dato quantitativo. L’occasione del carteggio è fornita ad Einstein da una richiesta formulata nel 1931 dalla Società delle Nazioni al fine di avviare un dibattito sul tema della guerra con l’apporto degli spiriti più alti del tempo. Einstein implica tosto Freud nella querelle e pone sostanzialmente due domande. Con la prima se sia possibile emancipare gli uomini dalla fatalità della guerra; con la seconda chiede lumi circa l’incomprensibile entusiasmo delle masse che si lasciano “infiammare fino al furore e all’Olocausto di s é “. Nella parte finale Einstein si dice consapevole che l’istinto aggressivo si svolga in mille forme e circostanze, e in modo asseverativo si dichiara convinto che “l’uomo ha dentro di s é il piacere di odiare e di distruggere”. La lettera è tutta qui, ma ci sorprende, e invece non dovrebbe, quando Einstein delimita l’ambito del pensiero scientifico: “Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano”. Diversi secoli prima Eraclito aveva rivelato: “Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza”.

La risposta di Freud è totalmente convergente con l’opinione di Einstein: “gli uomini si infiammano alla guerra perché c’è in loro una pulsione all’odio e alla distruzione che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta”. Inoltre, Freud ribadisce la commistione tra le pulsioni che tendono a conservare e unire, sia erotiche che sessuali, e quelle che tendono a distruggere e a uccidere, cioè le pulsioni aggressive o distruttive: l’essere vivente infatti protegge la propria vita distruggendone una estranea, da qui la conseguente interiorizzazione della pulsione distruttiva. Talvolta, dice Freud – maestro del sospetto nel riproporre l’adagio nietzschiano “laddove voi vedete cose ideali io vedo cose umane ahi, troppo umane” – abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da “paravento alle brame di distruzione”. In realtà non c’è speranza, secondo Freud, “di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”; e la rivoluzione bolscevica che ritiene di far scomparire negli uomini il comportamento aggressivo assicurando il soddisfacimento dei bisogni materiali e l’uguaglianza sociale, coltiva un’illusione, tiene i propri uomini in armi e fomenta l’odio contro gli stranieri. Vi è un solo modo per depotenziare le pulsioni distruttive: rivolgersi al loro rivale, l’Eros. Fin qui, 1932, la risposta freudiana alla lettera di Einstein.

Anni prima, nel 1915, in pieno conflitto mondiale, Freud aveva scritto un importante saggio, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. Egli, nel 1914 allo scoppio del conflitto, come del resto il Gotha della cultura europea del tempo (Edmund Husserl, Max Weber, Thomas Mann, Giovanni Gentile, Max Scheler, Ludwig Wittgenstein e tanti altri di medesimo spessore), riteneva che attraverso la guerra si potessero rilanciare i valori spirituali della Kultur contro la volgarità delle istanze materialiste e mercantiliste rappresentate dalla Zivilisation . Stefan Zweig, lo scrittore austriaco che a Londra nel settembre del ’39 pronuncerà una lunga orazione funebre in onore di Freud, a Vienna venticinque anni prima, nel ’14, subito dopo lo scoppio della guerra, si era così espresso: “Centinaia di migliaia di persone sentivano allora come non mai quel che esse avrebbero dovuto sentire in pace, di appartenere cioè a una grande​nazione […] Ciascun individuo era chiamato a gettare nella grande massa ardente il suo io piccolo e meschino per purificarsi di ogni destino”. Carl Zuckmayer, giovane scrittore tedesco, così descriverà, tra il mistico e il lisergico, il diffuso febbrile entusiasmo per la guerra alla stazione di Colonia: “Allora fui attraversato dall’ irradiazione di una corrente di elettricità cosmica […] Essa traspose tanto il mio corpo quanto la mia anima in uno stato di trance intensificando enormemente il mio amore per la vita, in una gioia di partecipazione, di vivere-insieme-con, una sensazione addirittura di grazia”.

La I guerra mondiale su cui inizialmente molti intellettuali avevano confidato attribuendole finalità catartiche e di palingenesi sociale, dopo il primo anno era apparsa per quello che realmente era: non una Glaubenskrieg, una guerra di religione e di fede, quanto “una inutile strage”, come nella definizione di Benedetto XV, non un lavacro che nettasse lo spirituale dai germi della volontà di potenza della tecnica, ma il suo trionfo, per avverare con le mitragliatrici, i sottomarini, i bombardamenti aerei, le armi chimiche, il “suicidio dell’Europa civile”, altra icastica enunciazione del pontefice. Col saggio del 1915 sopra menzionato, Freud aveva di fatto sconfessato gli entusiastici deliri interventisti dell’anno precedente. Dopo aver ribadito il tema dell’ambivalenza emotiva caratterizzante la situazione edipica, per altro già affrontata nel 1910 nelle Cinque conferenze sulla psicoanalisi , ed affermato che la costituzione della civiltà comporta la parziale rinuncia al soddisfacimento pulsionale, Freud stabilirà che “quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro”. Questa consapevolezza, assieme ad altre, consen tirà a Freud di svelare l’intreccio tra le strutture psichiche filogenetiche e ontogenetiche individuali. Freud ricorderà che la perentorietà del comando “non uccidere” dimostra che “discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini, i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, la voglia di uccidere”. E se è vero che nel nostro inconscio si agita inalterato l’uomo preistorico che non crede nella morte come noi la intendiamo, ovvero come definitiva, irreversibile sospensione della vita, e ciò spiegherebbe l’ampiezza del fenomeno dell’eroismo, è vero anche che le pulsioni​distruttive o di morte si configurano come pulsioni primarie, appartenenti al nostro corredo genetico; antecedenti cioè all’angoscia della morte che, in quanto intervenuta successivamente è qualcosa di derivato, di appreso, una pulsione secondaria che è stata acquisita gradualmente, così come gli intenti etici, nel corso della storia della civiltà umana.

Per Freud la guerra rappresenta allora una messa tra parentesi delle sedimentazioni culturali del progresso civile che lascia apparire le pulsioni primarie dell’uomo preistorico, ovvero ciò che per James Hillman costituisce il cosiddetto “stato marziale dell’anima”.

Ma è con Al di là del principio di piacere del 1920, che assieme a L’Io e l’ES del 1922 è considerato il vertice speculativo di Freud, che la sua teoria rende relativa “l’universale validità” delle pulsioni di vita, indirizzate al soddisfacimento del piacere, ad esse affiancando le pulsioni distruttive o di morte in una dinamica pulsionale che registra l’istanza primaria definita da Freud “coazione a ripetere”; cioè “la tendenza regressiva a ripristinare uno stato precedente penoso o addirittura doloroso e a restaurare le forme originarie dell’esistenza”. La “coazione a ripetere” è per diversi interpreti uno dei concetti più confusi della teoria freudiana, intanto perché è difficile, come sostengono Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis, “delimitare la sua accezione rigorosa”, e poi perché avrebbe offuscato “con le sue esitazioni, i suoi vicoli ciechi e perfino le sue contraddizioni”, l’indagine teorica di Freud. Tuttavia, nonostante ancora oggi vi siano diffuse resistenze all’accoglimento del costrutto in questione, l’idea della “coazione a ripetere”, tendenza “incoercibile e inconscia” alla disintegrazione e alla distruzione che attesterebbe il desiderio del ripristino di uno stato anteriore all’apparizione della vita, una sorta di nostalgia dell’inorganico, conserva inalterata il suo fascino e spiega la genesi del concetto di pulsione di morte come fondamento psichico della guerra. Sin dalle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte del 1915, Freud era convinto che le sue acquisizioni non cogliessero la complessità della vita psichica. Ed era​amaramente consapevole del fatto che le sue teorie “trovassero scarso credito tra i profani”. Ma, nonostante ciò, o forse proprio per questo, dichiarò di avere assunto come imprescindibile e definitiva la sua indagine sulle pulsioni aggressive, su quelle di morte e sulla guerra.

“Ricordo bene l’atteggiamento di difesa che assunsi quando l’idea di una pulsione di distruzione comparve la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle per accettarla, ma non riesco a capire come abbiamo potuto ignorare l’universalità dell’aggressione e della distruzione estranee ai fini erotici, e non dar loro il dovuto significato nella nostra interpretazione della vita”.

E a noi, perplessi per le quote vertiginose raggiunte dalle questioni evocate, non resta che accostare Theodor Adorno secondo cui nella psicanalisi sono vere soltanto le esagerazioni, o quelle che tali appaiono ai profani.

L’articolo è stato pubblicato su Suddovest il 09/05/2022

Di Bac Bac