di Vito Bianco

fotografia e olio su tela di Giuseppe Rizzo

È cominciato, mi pare, quattro giorni fa. Per essere preciso dovrei sforzarmi di fare mente locale, isolare un particolare di ieri e andare a ritroso fino al momento che voglio ricordare. Ma chi ne ha voglia? Preferisco restare imbambolato dietro i vetri della finestra a guardare la pioggia che viene giù fitta, i bei rimbalzi sul marciapiede di fronte, i passanti sotto gli ombrelli colorati come nella scena di una pellicola: uno spettacolo. La prima volta fu una visione rapidissima.
Mi sollevavo dopo la risciacquatura della faccia dalla conca bianca del lavandino e mi vidi nello specchio. Dovrei forse dire lo vidi. Non so. Oppure, con più esattezza, ci guardammo: due vecchi amici che non si vedono da molti anni, non sono sicuri di riconoscersi e, nel reciproco imbarazzo provocato dal dubbio, distolgono lo sguardo, vergognandosi un poco. Fu il mio caso: infastidito, disturbato pensai a una specie di scherzo. Ma no, lo scherzo era da escludere. E chi l’avrebbe ordito, dato che vivo solo?
Eppure doveva essere accaduto qualcosa di simile: un’allucinazione o una perdita momentanea della coscienza vigile, oppure un particolare riflesso della luce sulla superficie specchiante.
Succede a volte che quel che sembra mistero altro non sia che errore del senso interessato, o una fantasticheria che scambiamo per cosa realmente percepita.
In fondo, mi dicevo per tranquillizzarmi, non avevo visto che il riflesso del mio stesso volto, soltanto un po’ cambiato, ringiovanito di qualche anno. Dieci, all’incirca. Questo la prima volta, quattro giorni fa (diamolo per certo), alle sette del mattino, l’ora in cui di solito mi alzo e vado in bagno.

Per essere onesto devo confessare che sono affetto da astigmatismo, i contorni dei visi e degli oggetti mi sfuggono, tremano, perdono consistenza e nitore quanto più cerco di metterli a fuoco.
Questo forse spiegherebbe – potrebbe spiegare – l’immagine alterata, l’impressione di giovinezza ritrovata, riemersa dal fondo dello specchio allo stesso modo in cui da una lontananza memoriale, o da un oblio, riemerge un volto del nostro passato. O a provocarla era stato un desiderio elaborato da un sogno notturno dimenticato?
Io comunque ero in un certo senso fuggito, spaventato dall’imprevisto e preoccupante non ritrovarmi – non riconoscermi.
Intanto però nell’ombra dei pensieri giornalieri scavava la speranza che fosse tutto vero – gli anni in meno, voglio dire. Una pazzia? Può darsi.
La sera, alla luce debole che arrivava dall’unica lampada del corridoio, mi riguardai, rituffandomi nello specchio a occhi chiusi. Li aprii e mi rividi. Giovane come la mattina, forse anche di più.
Non saprei dire quante volte da allora mi sono guardato, anzi scrutato, a occhi nudi o con gli occhiali che mi correggono il difetto di cui ho parlato, e ogni volta quella giovinezza mi è rivenuta incontro come se non fosse la mia, come se uno sconosciuto che mi somigliava, un morto che non riuscisse a riposare volesse impadronirsi della mia carne per tornare a vivere una vita finita troppo presto.

Di Bac Bac