di Pepi Burgio

“Strada di campagna, con albero. È sera .” Così tratteggia Beckett lo scarno spazio scenico tenuto da Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot. Nella scenografia tradizionale del dramma, l’albero, in un tempo lontano ritenuto verdeggiante, carico di frutti e immagine della madre, viene in genere rappresentato come arido, secco, privo di vita, a sottolineare coerentemente con il pensiero dell’opera la solitudine ontologica, lunare dei suoi personaggi, l’immobilità del tempo e l’oggettivazione dell’assurdo, secondo il giudizio di Carlo Fruttero. E un albero, al centro di un evoluto labirinto in plexiglas, anch’ esso marchio di sterilità, ritroviamo nella sorprendente realizzazione scultorea e compositiva di Mario Donato, un artista eccentrico che aveva già rivelato il suo talento in una collettiva fotografica di qualche tempo fa.

Nel dedalo tra le cui trasparenze si situano in una fantasmagoria di riflessi le sagome umane di creta forgiate dall’autore, viene mostrata una sbalorditiva quanto inconsapevole manualità, brillata all’improvviso, per caso, tra le dita del suo facitore. Ciò comporta intanto il riconoscimento di un’infrequente modalità nella composizione del linguaggio artistico, che di norma ricorre ad un certo apprendistato prima di conquistare una spigliata sapienza realizzativa; e inoltre segnala un’opzione coraggiosa per il racconto iperrealistico della facies e della postura dei matti, figurati da Mario Donato nelle pose drammatiche della gettatezza. Colta, quest’ultima, intuitivamente, attraverso oscure visioni, più che riesumando un improbabile background semiologico, peraltro impalpabile o addirittura inesistente, a detta dello stesso autore. In sostanza, la speciale poetica di Mario Donato, di fatto priva di una specifica genealogia culturale, conferma quelle teorie che sostengono il carattere soggettivo, verticale della realizzazione​ artistica.

Ma cos’ hanno in comune quei corpi irrelati tra le pareti di vetro che li contengono, con quegli altri, posti più in alto, abbacinati dal buio della malattia mentale più che dalla luce gelida che irraggia i loro osceni box concentrazionari? Entrambi, sottraendo lo sguardo al riconoscimento dell ’altro, o attraversandolo come di fronte ad una assoluta trasparenza, inducono, nell’esperienza dell’abbandono, l’estinzione della corporeità altrui e della propria. Ha scritto Ronald Laing: “Non è possibile conservare la propria salute mentale se si cerca di essere separati da tutti gli altri e addirittura separati da una parte di se stessi .”

A Mario Donato, che con la sua toccante opera ha dischiuso una vasta teoria di suggestioni ed insieme ha offerto diverse opportunità per riflettere, un grazie sentito: ci ha alleggerito per un pò dalla gravezza di queste lande desolate, dove però, per incanto, fa capolino talvolta un fiore azzurro. E non è poco.​

Di Bac Bac