di Vito Bianco

foto di Tano Siracusa

Stamattina Andrea mi ha guardata in uno strano modo. Mi fissava il mento come se si meravigliasse di non trovarci più un puntino nero o un peletto che era lì al suo posto fino a ieri sera. Ho scosso la testa rapidamente per chiedergli cosa stai guardando, che succede? Lui ha sorriso e mi ha leccato la punta del naso con la punta della lingua. Lo fa spesso, a sorpresa, una mossa infantile che vorrebbe essere tenera, affettuosa, una maniera solo sua di esprimere la gioia di stare con me, di avermi, come dice, conquistata. La cosa non mi piace, se devo essere sincera, ma non glielo dico e lo lascio fare per paura che possa rimanerci male: gli uomini sono più fragili e suscettibili di quanto vogliano farci credere, si nascondono, cambiano discorso quando si tocca l’argomento, negano l’evidenza, si irrigidiscono, si offendono, e dopo qualche minuto di silenzio dicono vado a fare due passi, escono e per tre ore non li vedi più, anche se fuori piove a dirotto, e a te non resta che sperare che abbia almeno avuto il buon senso di cercare riparo in un bar.

Andrea non fa eccezione, e non la faceva nemmeno Benedetto. L’unica differenza tra i due è che Benedetto certe volte alzava la voce, si agitava, si arrampicava pateticamente sugli specchi; Andrea, invece, che in questi momenti forse si ricorda di essere stato un militare, tace, batte senza far suono sul ripiano del tavolo o la spalliera del divano e poi si alza e dice, anche lui, vado a fare due passi, si avvia alla porta ed esce richiudendola delicatamente. Io smetto di parlare e lo guardo allontanarsi con un sorriso che non conosce, che non ha mai visto, o se lo ha visto non lo ha però riconosciuto per quello che realmente è, ossia un sorriso di riconciliazione e comprensione e fiducia, un sorriso appena visibile che è il mio modo più intimo di stargli vicino e fargli sapere, sentire che non ha nulla da temere, che lo vorrò sempre accanto, anche quando sarà ancora più vecchio e non potrà più sollevare i pesi o lanciarsi col paracadute da quelle spaventose altezze, stargli vicino e dirgli che del passato non dobbiamo avere paura.

Ieri mi ha portato dodici rose rosse. Le teneva con la mano sinistra (è mancino) dietro la schiena e ammiccava con un occhio, lo chiudeva e lo riapriva, a scatti, ma era serio, non sorrideva, aveva il sole alle spalle e un raggio obliquo gli illuminava sul vertice della solida testa quadrata un ciuffo rialzato di capelli color mogano in mezzo al quale si poteva notare un filo bianco sfuggito alla presa chimica della lozione; mi sono messa a ridere e ho fatto due passi per abbracciarlo, lui ha fatto una finta di lato e con un movimento rapido mi ha ​intrappolata con le mie stesse braccia, i fiori erano spariti come per un gioco di prestigio, non li vedevo, sentivo il profumo ma non li vedevo e il suo fiato sul collo, le labbra sulla nuca e la sua mano sullo stomaco che premeva e scendeva piano a cercarmi più sotto, prima sul punto dove ancora mi fa male e poi dentro la curva del pube dove ha premuto ancora più forte ma senza provocare dolore, da dietro spingeva, mi leccava il lobo dell’orecchio e sussurrava qualcosa che non capivo, sembrava una lingua straniera, ci siamo spostati goffamente in una specie di danza, rischiando di cadere, lui ripetendo quella nenia, io con gli occhi semichiusi e la bocca aperta, come se stessi aspettando di venire imboccata, o baciata o fossi sul punto di dire qualcosa, ma quando siamo arrivati sulla soglia della camera da letto si è fermato, ha smesso di sussurrare la ninnananna (era una ninnananna africana) mi ha lasciato libere le braccia ed è tornato in cucina. Avevo detto Ben, secondo lui, l’avevo detto piano, pianissimo ma era riuscito a sentirlo. Ero sicura di non averlo detto, non potevo averlo detto, non in quel momento, non con le sue braccia attorno e la mano e il sussurro delle parole incomprensibili che significano “la luna ti culla e la nuvola ti accompagna nel sonno e nella veglia”, ma Andrea diceva di averlo sentito, e che se davvero pensavo di non farcela a trattenermi neppure quando eravamo insieme, e così vicini, se davvero non ci riuscivo avrei dovuto dirglielo, devi dirmelo, ha detto, non posso far finta di niente; non l’ho detto, ho ribattuto senza dargli il tempo di finire (mi è parso che volesse dire ancora qualcosa, ma potrei sbagliarmi), stavolta sono sicura, nel sonno forse sì, nel sonno sì, se me lo dici devo crederti, vieni, andiamo, gli ho stretto la mano, lo tiravo oltre la porta, volevo portarlo al di qua della linea invisibile che ci separava, lo tiravo e guardavo questo segno impercettibile sul pavimento di mattoni verdastri attraversati da tre linee verticali grigio chiaro, un segno che avrebbe potuto vedere anche lui se avesse abbassato lo sguardo.

Siamo rimasti lì fermi per non so quanto tempo, cinque, forse dieci minuti, un tempo lunghissimo, fermi, tenendoci per mano, e intanto il sole tramontava alle sue spalle, riempiva di ombre la stanza, oscurava i contorni del volto di Andrea e del mio che voltandomi di poco vedevo riflesso sul vetro di una credenza dove conservo per le occasioni importanti i piatti più belli e le posate più eleganti, la cagnetta Leila ha cominciato ad abbaiare giù nel giardino comune, contro qualcuno che entrava, Eva l’ha rimproverata e lei si è zittita dopo un flebile guaito di resa, di sottomissione; ci siamo come destati di colpo da un sonno e ci siamo abbracciati stretti, così stretti non ci eravamo mai abbracciati, e poi siamo andati a letto, ma prima di metterci sotto le coperte mi ha massaggiato i piedi, premendo e ruotando i pollici sulla pianta, partendo dal tallone e arrivando alle dita, premeva e ruotava, ruotava e premeva, e io dicevo qualcosa, oppure lo pensavo e basta, e quando finalmente è entrato con un sospiro, aggrappato con le mani ai miei capelli, ho visto Beni con i capelli biondi scompigliati dal vento come in una delle fotografie di Londra, quella in cui ha in testa il berretto comprato alla National Gallery e si vede dietro un signore che passa e guarda verso di me che sto scattando, l’ho visto ma non l’ho chiamato, ho chiamato Andrea, o forse nessuno.

Si è addormentato; e io ripenso una volta ancora all’ultimo giorno, al giro in moto, alla cena giapponese, alla mia caduta, al sogno dell’aereo che mi sveglia alle quattro del mattino, anche se l’ordine non è mai lo stesso, l’aereo può arrivare per primo, per esempio, e qualche volta un episodio del passato anche lontano si aggiunge alla sequenza delle immagini e ne sconvolge la coerenza, introduce la giovinezza dove domina la mezza età, il desiderio ancora vivo là dove è già comparsa la patina opaca dei tanti anni insieme; allora cerco di cancellarla, o di riportarla nel giusto quadro cronologico, di associarla alle immagini vicine, accanto alle quali riacquista senso, colore e significato, e lì la lascio in attesa di ritrovarla e di rimetterla in moto insieme alle altre nel flusso di una nuova proiezione silenziosa e notturna.

Alle sette è già ai fornelli. Prepara il caffè nella caffettiera da due tazzine, le spremute di arance rosse, quattro fette di pane integrale abbrustolite minuziosamente ricoperte di marmellata di mirtilli senza zucchero. Gli ho domandato cosa mangiava in Africa e mi ha risposto riso, papaya, granoturco, latte di capra, alimandura , un impasto di ceci, patate lesse e farina di segale, ma non sempre avevano tempo per mangiare tranquilli a un tavolo, a volte passavano anche due giorni tra un pasto e l’altro e dovevano arrangiarsi con le gallette e il lardo in scatola, gli ordini per le missioni arrivavano all’improvviso, a qualunque ora, certe volte anche in piena notte, saltavano sui camion e partivano per un villaggio distante tre chilometri o quaranta, una guida su ogni automezzo, subito vigili, attenti, pronti a sparare, l’istinto affinato in mesi di duro allenamento nel corpo speciale dell’esercito, la lotta tailandese, il judo, la palestra quotidiana, sparare in corsa al bersaglio con una mitragliatrice leggera, se volessi potrei farlo anche adesso, cosa?, centrare il bersaglio in corsa con la mitragliatrice, o con l’arco, ma con l’arco da fermo, con l’arco in corsa il bersaglio lo manchi di sicuro, e quando arrivavate al villaggio…, se ancora non c’era luce, se eravamo sull’obiettivo prima dell’alba scendevamo in silenzio dai camion e aspettavamo accucciati dietro i mezzi o dietro i tronchi degli alberi, se erano abbastanza larghi da nascondere un uomo, aspettavate che spuntasse il sole per fare…, ci mandavano a prevenire l’azione dei ribelli, i gruppi che si erano ribellati, che non accettavano l’autorità del presidente, eravamo pagati per questo, ci pagava molto bene il presidente, dopo sei mesi di quel lavoro ho comprato un bilocale, lo facevo per i soldi, lo facevano tutti per i soldi, di quel che succedeva veramente sapevamo poco, quasi niente a dire il vero, spuntava un nuovo giorno e a un segnale gli uomini saltavano fuori da dietro i tronchi o da dietro le ruote dei mezzi di trasporto, camion e jeep, e irrompevano nel villaggio, stava dicendo Andrea, gli uomini con i mitra entravano nelle capanne per cercare i ribelli, i guerriglieri, per ammazzarli, i ribelli e quelli della capanna che lo avevano accolto, ma non era facile, non era facile avere la certezza che…, e nel dubbio si sparava, sparavate, così?, sparavamo, sì, per la paura che fossero loro a sparare ​per primi e perché eravamo là per quello, era quello che si aspettavano, era per quello che ci pagavano.

Una volta un ragazzo, uno dei nostri…, uno dei vostri…, uno dei nostri, un ragazzo che non aveva ancora compiuto vent’anni, un francese di Lione, ha avuto un crollo di nervi e ha sparato mezzo caricatore contro…ci spaventavano persino le ombre, ci davamo delle arie, ma la verità è che avevamo una gran paura di lasciarci le penne, lo so cosa stai pensando, che nessuno mi aveva costretto, ma i soldi mi attiravano, e l’esperienza che potevo ricavarne, quello che avrei avuto da raccontare al ritorno, ma i morti, ci pensi?, non ci penso, è acqua passata, in fondo potrei dire che non ero io, potresti, potrei e sarebbe quasi vero, no?, quasi, dissi, e dopo averlo detto Beni apparve come un vivo, seduto sulla poltrona con le gambe accavallate, il ciuffo sulla palpebra sinistra, il dolcevita nero, gli scarponcini scamosciati con la suola di gomma; mi guardava divertito e muoveva una mano nel gesto che significa quasi, all’incirca, poi vidi che muoveva le labbra, come se parlasse, ma non sentivo niente; mi concentrai sul movimento per leggere il labiale ma fu inutile, decifrata una parola tre me le perdevo, lessi domani, anni, mercenario, ricordare che, però qualche volta di notte mi sveglia un sogno, sogno che il presidente del Congo, quello di allora, mi appunta una medaglia sul petto; il presidente è enorme, gigantesco, o forse sono io che sono piccolo, piccolissimo, mi appunta la medaglia sul petto, mi dà un colpetto sulla spalla e scoppia in una risata fragorosa, che aumenta sempre di più e rimbomba nella grande sala vuota, la sala delle cerimonie del palazzo presidenziale, addobbata come per le grandi occasioni ma completamente vuota, il presidente ride, ride, sembra che non debba mai smettere di ridere, io invece comincio a tremare, a piangere, mi volto per andarmene, voglio scendere dal palco, tornare a casa, ma il presidente, senza smettere di ridire, mi afferra per un polso e mi dice, in francese, non abbiamo ancora finito, c’è la cena d’onore, con un menù di altissimo livello, non me la perderei per niente al mondo, non mi dirai che vuoi perderti la cena d’onore?, io lo guardavo con la vista annebbiata dalle lacrime e mi sforzavo di dire non ho fame, mi sforzavo ma la voce che mi usciva era appena un sussurro, o forse era quella assordante risata che la sovrastava, sono stata sola per tutti questi anni, tu lo sai, ho pianto per cosi tante notti dopo quella notte, non puoi rimproverarmi, devi avere un po’ di comprensione per me se da lassù continui a volermi bene, se lassù il bene che c’è stato sulla terra vale ancora; o cambia, si trasforma? Ma qui per noi no, per me no, non ho mai dimenticato una data, un anniversario, ripetevo che non avevo fame ma il presidente non sentiva, mi teneva stretto e mi guidava verso il retropalco, oltre una tenda scura e pesante che faceva venire in mente un sipario, vieni, vieni con me ripeteva il presidente, vedrai che piatti squisiti mangeremo, ho chiamato i tre migliori cuochi del paese, i più bravi, i più premiati, ma io non ho fame, non ho fame gridavo, tu non hai e anch’io non ho, quante storie disse allegramente il presidente, che a quel punto aveva smesso di ridere.

Beni non muoveva più le labbra, aveva incrociato le braccia e si dondolava come per cullarsi, a occhi chiusi; fuori, all’ombra di una magnifica palma, c’era una lunga tavola apparecchiata alla quale sedevano una ventina di commensali che non avevo mai visto prima, tranne un vecchio a capotavola che ero sicuro di aver visto almeno una volta da qualche parte; Beni, dissi, pensai, rimani, non te ne andare, cosa?, chiese Andrea, niente, vai avanti, c’era un vecchio: era il padre di…,, non lo so, può darsi, ne avevamo visti tanti di padri, di madri. Il presidente mi portò dal vecchio e mi presentò, disse, questo è Andrea, un bravo ragazzo dalla mira infallibile; l’uomo mi guardò negli occhi e disse, lo so, l’ho visto in azione, e con la mano ossuta mi sfiorò la fronte; i commensali applaudirono all’unisono e gridarono viva il presidente, lunga vita al presidente, arrivarono i camerieri con la prima portata, il presidente si sedette e io accanto a lui, vedrai che piatti squisiti, vedrai se non ho ragione disse il presidente, che sorrideva all’intorno e annuiva alle parole che gli venivano rivolte ma che io non sentivo. L’anno che tra qualche giorno comincia si annuncia come il più fortunato da un secolo a questa parte, disse il presidente, la nostra economia ha fatto un balzo in avanti, il pil è in costante crescita e le ultime resistenze dei ribelli sovversivi sono state sgominate grazie all’azione coraggiosa e scientifica di uomini come questo valente ragazzo seduto accanto a me, e mi indico con l’indice, l’ultimo rappresentante dei ribelli è qui con noi, ma non rappresenta più alcun pericolo per l’incolumità degli onesti cittadini del nostro onorato e rispettato paese. Beni era scomparso; al suo posto sulla poltrona c’era la sciarpa bianca che gli avevo regalato per il primo anniversario del nostro matrimonio. E poi? Poi sento una lunga scarica di mitragliatrice; nelle mani del vecchio era apparsa una mitragliatrice automatica capace di sparare migliaia di colpi, una di quelle che avevamo in dotazione noi dei corps etrangers . Il vecchio spara tenendo l’arma con una sola mano, calmo, impassibile, e i commensali si piegano in silenzio sul tavolo, la testa nel piatto che hanno davanti. L’ultimo a cadere è il presidente, che ridendo muore.​

Di Bac Bac