di Alfonso Lentini

Che sia stato lanciato il giorno di San Valentino o che il titolo contenga parole tipiche del lessico sentimentalistico non ci deve fuorviare. Nulla di melenso o romanticheggiante si trova fra le pagine de Il vero amore è una quiete accesa, il nuovo libro del regista e drammaturgo siciliano Francesco Randazzo appena pubblicato dalle edizioni Graphofeel. Il titolo, intanto, riprende un verso di Giuseppe Ungaretti e il “vero amore” che Randazzo racconta è una forza tutt’altro che consolatoria; ruvida, invece. Conflittuale, devastante. Perché la “verità” dell’amore, secondo questo libro, consiste nel suo essere estremo, incendiario: è l’amore, infatti, che accende la quiete apparente dei due personaggi principali e li costringe a fare i conti con le contraddizioni delle loro vite. “Ogni vero amore ha una sua follia che lo rende unico”, dice l’autore in una recente intervista. C’è dunque una storia d’amore, se per amore intendiamo una passione non addomesticabile e oscura, ma il libro è affollato anche da un fascio di storie, non solo amorose, che si intrecciano e alla fine si dissolvono: come un disegno tibetano di sabbia, la vita – col suo zigzagare nel tempo – si disperde in un soffio (“ma pure, la polvere da qualche parte vola, e qualcun altro la respirerà”). Questo è il paradigma delle vicende raccontate , un paradigma da vanitas vanitatum , dentro il quale si incastrano due casi particolarissimi, quelli di un uomo e di una donna, Tommaso e Moira, che vivono così drammaticamente il rapporto con la propria infanzia che i loro alter ego bambini (Tommi e Leyra) sono presentati quasi come altre persone, e i due bambini di un tempo, come spesso succede nella vita, dovranno dissolversi per dar vita ai due adulti. Eppure Tommaso e Moira, i due adulti (“diversi” anche nei nomi che l’autore assegna loro), generati dalle dure esperienze infantili che li hanno mutati nel profondo, mantengono fissa nei loro pensieri la cicatrice del passato. Che determinerà il futuro. Si sdoppiano e si dissolvono i personaggi, si sdoppiano (ma anche si intrecciano) le vicende. Leyla è una bambina che un’inguaribile malattia agli occhi ha reso progressivamente cieca, ma grazie a una nuova tecnologia sperimentale riesce a recuperare una sorta di “vista artificiale”. Questa tecnologia è però ancora imperfetta, perciò il ritorno della vista si accompagna a un progressivo espandersi della luce, un eccessivo bagliore che si rivela essere un nuovo e più terribile ostacolo alla visione. La troppa luce, come insegnano le sciabolate abbaglianti del sole mediterraneo, non svela ma nasconde. Acceca. Dunque la cura non funziona e riporta Leyla al punto di partenza. Anzi, strappandola al buio, la strappa a una sorta di nido, a un caldo mondo interiore nel quale si era rifugiata. Ma le storie si intrecciano, dicevamo. Si intrecciano fatalmente. L’inventore della nuova cura che salva e insieme danna la bambina Leyra è proprio l’ex bambino Tommi, nel frattempo trasformato in Tommaso e divenuto bioingegnere. Diventata nel frattempo la bellissima Moira, la ragazza incontra casualmente Tommaso e, senza sapere che è proprio lui l’involontario responsabile della sua dannazione, di lui si innamora. Da questo incontro nasce qualcosa di fatale che fatalmente conduce alla dissolvenza : un rapporto amoroso squilibrato e devastante, ma profondamente “vero”. Sono tanti, forse troppi, i temi che incalzano in questa concitata narrazione (l’amore, l’erotismo, il distacco dall’infanzia e da se stessi, lo sdoppiamento, il destino, il conflitto, lo scorrere del tempo), ma la forza del libro sta proprio nell’amalgamare con naturalezza un flusso così disparato e polidirezionale in una prospettiva dove armonicamente convivono crudele realismo e leggerezza visionaria. Ma definire “romanzo” questo luogo di confluenza di così tante tensioni sarebbe forse troppo poco. Perché Il vero amore è una quiete accesa è soprattutto una complessa sperimentazione ​di scrittura plurale e disarticolata che fotografa l’oggetto (o gli oggetti) del racconto circumnavigandoli, girandoci attorno per ricavarne un’immagine tridimensionale (“cubista” si sarebbe detto un tempo). Più voci, voci diversissime, si alternano con inquadrature dal basso, dall’alto, dall’interno, in una visione direi “animista” dove persino gli oggetti (un giocattolo, una bambola, un cagnolino) prendono la parola e in essi si incarnano, partecipi o perplesse, remote figure mitologiche la cui voce allarga all’improvviso la prospettiva e genera spiazzanti “visioni dall’alto” che inquadrano i piccoli eventi del racconto in una prospettiva inaspettatamente cosmica e meta-temporale. L’amore, nel suo essere forza ingovernabile, dice ancora l’autore, è “l’unica cosa che le divinità antiche c’invidiano. Per questo le vicende dei due protagonisti sono narrate da Iride e le sue divine sorelle, che si aggirano nel cielo di Roma, curiose e avide spettatrici del gran teatro di amori e passioni dei comuni mortali”. Così, in questa prospettiva meta-temporale, tutto si dissolve “come un disegno tibetano di sabbia” e la dissolvenza del tempo e dei corpi si prospetta come unica via per la ricomposizione. Francesco Randazzo è un uomo di teatro proveniente da solida scuola (quella di Giuseppe Di Martino prima e quella dell’Accademia Silvio D’Amico poi). “Siciliano della diaspora”, come lui stesso si definisce, è nato a Catania ma ha fatto di Roma l’epicentro della sua vita e gira liberamente il mondo (con il corpo, quando capita; oppure con le sue opere, che poi è quasi la stessa cosa). Teatrante fra i più sopraffini e consapevoli, è nel contempo un autore a tutto tondo; la sua produzione spazia dalla poesia alla saggistica e si distingue anche nella narrativa: fra i suoi precedenti romanzi, va ricordato Tu non lo sai da dove vengo (Mediano Zero, 2015) che racconta un’arruffata scorribanda nei labirinti della notte catanese all’inseguimento di una strada e di un numero civico forse inesistenti; un vagare sconnesso e visionario di due personaggi lunari verso un finale che a poco a poco assume mille valenze allegoriche, sino a tingersi nelle ultime pagine di colori fiabeschi. Ma il libro forse più importante di Francesco Randazzo è un altro: I duellanti di Algeri (Graphofeel, 2019), una “fiaba storicizzata” dove la documentazione attestante l’esistenza di un rapporto fra il poeta siciliano Antonio Veneziano e il celebre Miguel de Cervantes è il punto di partenza per una girandola di invenzioni narrative che spaziano dal conte philosophique al racconto picaresco, sino all’incursione nei territori (quasi borgesiani) del fantastico più assoluto.​

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