di Vito Bianco

 
 
Nell’epistolario di un poeta il lettore si aspetta di trovare osservazioni sulla poesia, la propria e quella d’altri. In quello di Osip Mandel’štam (Epistolario. Lettere a Nadja e agli altri, 1907 – 1938) pubblicato lo scorso agosto dall’ editore Giometti & Antonello di Macerata per la curatela di Maria Gatti Racah, di poesia si parla poco. E se ne parla poco perché Mandel’š tam aveva cose più importanti a cui pensare: trovare lavoro, trovare una casa, occuparsi della moglie Nadja che aveva seri problemi di salute, sostenere economicamente l’anziano padre.
 
Il lavoro era quello di traduttore, e di traduzioni dal francese e dal tedesco ha vissuto per più di vent’anni, sino all’epigramma contro Stalin che gli costò prima il confino e poi la morte in un campo di prigionia.
 
Mandel’š tam. è stato una delle punte di diamante di una irripetibile generazione di poeti della quale fanno parte Pasternak, Majakoskij, la Achmatova, Marina Cvetaeva e Chlebnikov, per citare i più noti; era un esponente del gruppo acmeista, il movimento che si proponeva di ridare concretezza e solidità alla poesia russa dopo i languori e le suggestioni degli autori che guardavano al simbolismo francese, senza per questo rinunciare al mistero delle corrispondenze o alla tensione metafisica. Questo necessario programma è perfettamente realizzato nella sua opera in versi, dove per l’appunto la nuda materialità delle cose, di quelli che Sereni ha chiamato gli umili “strumenti umani” convive e dialoga con l’allegoria e la visione, l’acqua del pozzo col cielo stellato. Nel ’13 da alle stampe il suo primo libro, La pietra; nel ’22 esce Tristia; l’anno dopo Il secondo libro. Negli anni successivi escono le superbe prose di Viaggio in Armenia, Il rumore del tempo, La quarta prosa, e l’imprescindibile Discorso su Dante, l’auscultazione critica quasi medianica della Commedia.
 
Ancora molto giovane, Osip si innamora degli ideali rivoluzionari. Per prudenza, il padre lo manda a studiare a Parigi. E proprio dalla capitale arrivano, indirizzate al padre, le prime lettere di questa preziosa selezione epistolare. Sono comunicazioni rapide e fervide di scoperte e incontri di un giovane letterato che si cerca in sé e negli altri, che ha bisogno di interlocutori capaci di spronarlo, con i quali intessere un dialogo anche in contraddizione e dissenso.
 
Uno di questi è il suo vecchio insegnante di lettere, Gippius, al quale scrive: “Ho sempre sentito l’esigenza di confrontarmi con voi, eppure mai una volta sono riuscito a parlarvi di ciò che reputo importante. (…) Fu molto tempo fa che iniziai a percepire al contempo nei vostri confronti una particolare attrazione e una certa peculiare distanza che ci separava. (…) E voi perdonerete la mia audacia se vi dico che siete stato per me quel che alcuni definiscono un ‘amico-nemico’”.
La maggior parte delle lettere   sono indirizzate all’amatissima moglie Nadja, riferimento costante e sovente compagna di fatiche traduttorie, alla quale si rivolge variando all’infinito il gioco nominale di vezzeggiativi e diminutivi, e che sarà dopo la morte del poeta custode appassionata e acuta del suo lascito letterario nonché sicura e precisa memorialista (L’epoca e i lupi).
 
(Stiamocene un po’ in cucina assieme
l’aria è dolce di bianco cherosene;
 
un coltello tagliente e una pagnotta…
Se vuoi, prepara ben bene il fornello;
 
altrimenti raduna e intreccia corde;
prima dell’alba fa’ una grande sporta:
 
fuggiamo a una stazione, ad un binario
dove nessuno ci possa trovare.)
 
Non molto inferiore è il numero di quelle scritte al padre, figura fondamentale nella formazione del poeta e interlocutore sempre presente e ascoltato; le altre sono quasi tutte lettere che concernono questioni di lavoro o pratiche: decidere dove è più conveniente passare l’inverno, comunicazioni sull’invio di denaro, tema che torna con cadenza ossessiva, la ricerca di un alloggio, notizie sulla salute… Poche, pochissime sono quelle che, indirizzate ad amici scrittori, si occupano esclusivamente di faccende letterarie, come quella scritta a Slovskij per rispondere a una recensione sfavorevole del Viaggio in Armenia.
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“(…) voi parlate solo di ‘cose’, ovvero di qualcosa che non esiste in arte…Il diritto diparlare del sole o di un quadro -sono delle stesso ordine – l’artista, come chiunquealtro, lo paga con la nascita e con la morte. Ciò che voi definitecosa – termine orribile, ormai da tempo da archiviare – è applicabile alla produzione seriale di mostruosità.
 
2) Il mio libro parla del fatto che l’occhio è uno strumento di riflessione, la luce è forza e l’ornamento è pensiero. Tratta di amicizia, di scienza, di passione intellettuale, non di ‘cose’. (…) La massima ricompensa per in artista è stimolare all’azione persone che pensano e sentono diversamente da lui”.
 
Un discorso a parte meriterebbe l’accusa di plagio del tutto   infondata   e   le conseguenti lettere aperte agli scrittori  sovietici con le quali Mandel’štam   si difende e attacca con una forza e un’eloquenza degne del suo carattere e del suo stile agile e compatto a un tempo.
 
È il primo segnale dell’ostracismo politico e dell’emarginazione professionale che precedono, come il tuono la tempesta, il confino, il tentato suicidio e la condanna per attività controrivoluzionaria, atto finale di un accanimento insensato e feroce da parte di un despota tanto sanguinario quanto stupidamente permaloso.
 
“Il peggio” scrive il poeta, “non è che avete spezzato in due la mia vita, che avete distrutto barbaramente il mio lavoro, avvelenato la mia aria e il mio pane, ma che siete riusciti a non accorgervene. Concludo io per voi: faccio quello che per pigrizia o viltà non siete riusciti a fare. Non dovrete più “difendere la dignità della letteratura da Mandel’štam” (espressione autentica del documento dell’Unione degli scrittori redatto alla “Casa Herzen”)”.
 
Osip Mandel’štam fu forse l’ultima vittima di un epoca folle che, come scrisse, Roman Jakobson, aveva dissipato i suoi poeti, le sue più alte voci.
 
“Ciò che è tragico” ha empaticamente osservato Pasolini, citato nella bella e informata introduzionedella curatrice, “è il suo cercare di accontentarsi, i suoi poveri movimenti di accomodamento (…). Annaspando nel limbo della vita – che era poi la non-vita di chi non accettasse la dittatura di Stalin – Mandel’štam ha vissuto una vita irreale, per cui non esisteva soluzione”.
 
Tranne la morte, che la poetica “scienza degli addii”  (“Io so la scienza degli addii/appresa tra lamenti notturni e chiome sciolte”,  Tristia ) lo aveva preparato a guardare negli occhi.
 
 
 
 
 

Di Bac Bac