di Francesca M. LoDico

di Tom Thomson

È da settembre che questa canzone di David Byrne mi risuona di continuo in testa :

Well, we know where we’re going But we don’t know where we’ve been…

Sappiamo dove andiamo Ma dove siamo stati, noi non lo sappiamo…

Entro nel parco Tiohtià:ke Otsira’kéhne: boschi boreali di aceri secolari, querce e pioppi. Mi tolgo la maschera. L’aria è frizzante. La natura intorno è una superficie rosso fuoco di foglie cadute o cadenti. Sento un brivido. Un vento freddo mi accarezza e pizzica allo stesso tempo. Le foglie fremono per volare via, ma gli alberi vorrebbero resistere. È facile venire sedotti da Montreal nel momento in cui si assiste a questo malizioso spogliarello di fronde autunnali. Madre Terra è già un po’ assonnata, e tremolando si avvia verso quella luce, bianchissima e un po’ amara, che è l’inverno canadese. Per adesso, però, fiammeggia ancora di colori. Giallo. Arancione. Rosso. Morire non è mai stato così dolce.

A Montreal, dove ho vissuto la maggior parte della mia vita, sento che il mio io più vitale si risveglia durante l’autunno e l’inverno. Agrigento, invece, di dove è originaria la mia famiglia e dove ho trascorso parte della mia infanzia, manifesta il suo io più puro in primavera. L’inverno ad Agrigento è accettato a malapena; poi, però, i mandorli fioriscono come se volessero partecipare a uno splendido concerto, e i petali profumati ricoprono la terra come per dare il benvenuto a Persefone che in primavera ritorna dall’Ade. Sua madre, Demetra, incita di continuo la Natura perché faccia arrivare l’estate, e con essa la rinascita e il fermento del raccolto imminente.

Nell’artica Montreal, lo sbadiglio autunnale di Madre Terra diventa una splendida meditazione sul ciclo naturale delle cose, un lento prepararsi alla quiescenza del corpo e della mente.

Forse il mio è un DNA mediterraneo che è riuscito ad adattarsi all’ambiente canadese – un ambiente che è esattamente l’opposto di quello delle mie origini. Forse, per una scrittrice introversa come me, c’è un senso di protezione nel ritiro e nella solitudine dell’inverno qui in Canada. E se ci fosse anche qualcos’altro? E se il mio io mediterraneo prosperasse a Montreal proprio perché, in fondo, non ha mai lasciato Agrigento?

Nel libro On Persephone’s Island: A Sicilian Journal , l’autrice Mary Taylor Simeti racconta il percorso che le ha permesso di abbracciare delle identità apparentemente opposte . Scrittrice americana trapiantata in Sicilia dopo aver sposato un professore italiano negli anni sessanta, Simeti si riconosce per questo nella figura di Persefone, tanto da indicarla come il simbolo stesso della polarità:

“Persefone, l’eterna espatriata, la dea degli inconciliabili contrasti e delle mutevoli alleanze, colei che ha scelto di mangiare i semi del melograno, così da poter ricoprire due ruoli e abitare due mondi”.​

A Joppolo Giancaxio, nel terreno di famiglia, c’è un melograno. Mio zio Carmelo dice che è “un ricordo del nostro passato”. Un ricordo vivente. Anche zio Carmelo è un eterno espatriato, seppur in un diverso contesto geografico. Specialista di malattie renali, ha vissuto per molti anni a Trento, che è ormai per lui una seconda casa. Dal nostro melograno si può vedere il cimitero di Joppolo. Le precedenti generazioni della nostra famiglia sono sepolte lì. Nelle vicinanze ci sono anche alberi di fico, meli, cachi e ulivi, tra cui un magnifico saraceno centenario. “Un albero è espressione di vita”, dice zio Carmelo. “L’albero è la vita”.

In Canada non ho un albero che io possa sentire mio, almeno non nel modo in cui zio Carmelo parla del melograno di famiglia, le cui radici sono così vicine alle nostre. Certo: qui dispongo di foreste urbane in cui vagare in piena libertà, ma la loro memoria vivente mi include solo per caso. Qui parlo lingue che non sono davvero le mie, non in quel modo in cui il dialetto siciliano mi lega al melograno e all’ulivo saraceno. Il mio rapporto con la lingua inglese e con quella francese, e anche con la lingua italiana, è un incidente creato dalla Storia, dai flussi migratori, dalle politiche di colonizzazione. Ma mi ritrovo qui, così smetto di percorrere la fin troppo battuta strada delle false dicotomie tra il Vecchio Mondo e il Nuovo, nelle quali la Sicilia è vecchia, come dice il principe Fabrizio ne Il Gattopardo: “Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi”. Mentre il Canada è…

Una foglia d’acero rosso-arancione mi si attacca ai capelli – capelli ricci e scuri, decisamente siciliani. Degli scoiattoli corrono su un terrapieno scosceso. In alto c’è uno stormo di uccelli, forse usignoli. Il vento ulula sollevando un canto che sussurra, da questa parte, e mi conduce su per un sentiero che serpeggia fino alla cima di una montagna che un tempo era un luogo di ritrovo dei Kanienkeh (Mohawk), uno dei popoli irochesi che chiamavano questa terra casa molto prima che i colonizzatori europei ne facessero la “scoperta” .

Quando, all’inizio del XVII secolo, i Francesi arrivarono in questi territori, qui sorgeva Tiohtià:ke, un’importante città madre dei popoli autoctoni detti First Nations. Il nome del parco, invece, è Tiohtià:ke Otsira’kéhne, che significa “Luogo del Fuoco Imponente”: sulla sua sommità, infatti, venivano accesi dei grandi falò di segnalazione. Le leggende e i racconti orali irochesi invocavano spesso una dea della fertilità chiamata lo Spirito del Grano, una spaventosa creatura mangia-uomini detta l’Orso Nudo, e spiriti della tempesta conosciuti con il nome di Tuonanti.

Nelle loro leggende la creazione del mondo è avvenuta nel momento in cui una Dea Madre chiamata Donna del Cielo cadde sulla terra attraverso un buco nella volta celeste. In questi racconti l’universo e il mondo naturale sono sempre intimamente intrecciati. Cosa avrebbe pensato l’antropologo siciliano Giuseppe Pitrè di queste tradizioni? Cosa avrebbe detto di quei saperi indigeni come la tessitura dei cesti, i ricami di perline, il gioco dei dadi e gli insegnamenti sulle piante medicinali che si trovano in questi boschi? È antico, questo posto, antichissimo…

È David Byrne a riportarmi al presente:

... We’re on a road to nowhere

Come on inside…

…Andiamo verso il nulla

Entra…​

Mi sistemo gli auricolari. Istintivamente i miei piedi seguono il ritmo marziale della musica, mentre avanzo sul percorso a zig-zag formato dal mulinare delle foglie. Il parco Tiohtià:ke Otsira’kéhne si trova sul fianco nord del Mount Royal Natural and Historical District, oltre 400 ettari di flora e fauna canadesi nel cuore della mia città.

Dagny Bock, olio su tela

Al centro di questa oasi c’è un grande spazio di verde pubblico ben curato. Qui noi montrealesi (diligentemente muniti di paletta e sacchetto) portiamo a spasso i cani, diamo da mangiare alle anatre, facciamo escursioni, ci dedichiamo al birdwatching, andiamo in pedalò o in bicicletta, pattiniamo sul ghiaccio, camminiamo con le racchette da neve. Qui scattiamo foto ultra-patinate da matrimonio, organizziamo dei picnic, facciamo a gara con mini-barche a vela telecomandate e, d’inverno, con gli slittini. Qui ci travestiamo con abiti medievali e ci sfidiamo con spade di gommapiuma, definendoci “i guerrieri della montagna”. Qui organizziamo dei festival domenicali chiamati Tam-Tam, in cui suoniamo tamburi e balliamo intorno a una grande statua della libertà. Qui accendiamo illegalmente dei falò notturni, ci ubriachiamo di birra e ci facciamo di marijuana legalizzata.

Casa mia è a pochi passi da qui, in un quartiere tipicamente nord-americano che mantiene però un distintivo carattere europeo. La provincia del Quebec, da un punto di vista linguistico e culturale, è essenzialmente francese (e cattolica), mentre il resto del Canada è di fatto inglese (e protestante). Di conseguenza la nostra realtà politica è abbastanza complicata: per ben due volte il Quebec ha cercato di diventare indipendente dal resto del Canada, fallendo l’obiettivo per un pelo. Montreal è la seconda città più grande del Canada, con un’area metropolitana di 4,2 milioni di abitanti. Viene definita la Parigi del Nord-America: è un importante centro culturale con una vivace vita notturna, le baguettes e i croissant sono divini e quando ci incontriamo ci salutiamo all’europea, con un bacio su entrambe le guance!

Il parco Mount Royal è stato progettato nella seconda metà del XIX secolo da Frederick Law Olmsted, un architetto noto per aver ideato il Central Park di New York. Sulla sua vetta più alta, a 233 metri di altezza, si erge una croce d’acciaio alta 31,4 metri, che si affaccia sulla zona est della città, e di notte viene illuminata. Sulle pendici del Mount Royal si trovano dei palazzi di lusso, un’università inglese e una francese, il Saint Joseph’s Oratory (la più grande chiesa del Canada), un grande ospedale e quattro cimiteri con sepolture cristiane, protestanti ed ebraiche in cui anime francesi, inglesi, irlandesi e scozzesi – i coloni fondatori di Montreal – dormono accanto ad anime italiane, portoghesi, cinesi, giapponesi, greche ortodosse, serbe, polacche e ucraine.

di Tom Thomson

Sento che il terreno sotto i piedi non è più morbido, ma è ancora lontano dal ghiacciarsi. Le cose sono già cambiate rispetto a pochi giorni fa. Le dita sotto i guanti iniziano a intirizzirsi. Addosso ho un cappotto leggero. Sono tante le giacche appese nel mio armadio: un impermeabile leggero e uno più pesante, foderato; il cappotto leggero; un parka corto in piumino e un parka lungo con cappuccio di pelliccia. Scegliere il vestiario adatto è una vera forma d’arte, qui in Canada. Mi appoggio a un tronco caduto per allacciarmi gli scarponi. Al momento la temperatura oscilla intorno ai 2 gradi. Ieri era a -3. Domani salterà a 14. Sotto le suole di gomma sento che il terreno inizia a indurirsi: è il perfetto distillato di un momento dell’anno in cui le temperature passano dal caldo fuori stagione al freddo rigido nell’arco dello stesso giorno. Sebbene il termine “fuori stagione” abbia perso il suo significato a causa del cambiamento climatico, qui si sente ancora il bisogno di utilizzarlo. La prima gelata è arrivata a ottobre, e ha lasciato delle piccole chiazze di cristalli di ghiaccio sul terreno. La prima neve è arrivata a metà novembre, e i fiocchi hanno resistito per un’intera giornata. La neve di novembre è effimera, ed è parte integrante degli scherzi dell’autunno: pioggia che si trasforma in neve, neve bagnata che si trasforma in pioggia e ogni possibile variazione sul tema “pioggia mista a neve”. La neve di inizio dicembre è simile a quella di​novembre, però a partire da fine dicembre, e poi a gennaio, febbraio e fino a inizio marzo, ci sono raffiche di neve, tempeste e bufere, tormente, uragani e burrasche, venti gelidi, grandinate e lastre di ghiaccio.

Gli amici e i parenti, in Sicilia, sono terrorizzati dal clima canadese. Ogni anno, ai primi freddi autunnali, ricevo messaggi dai toni preoccupati: “Tutto OK?”. C’è l’eco di altre domande, in quei messaggi: Come mai vivi lì? Don’t you miss Sicily? Isn’t Sicily beautiful? Quando torni?

A essere sinceri, non tutti in Canada amano l’inverno. Un fenomeno proverbiale, infatti, è quello dei cosiddetti “ uccellini della neve” : migliaia di pensionati che in inverno dal Quebec fuggono in Florida, tanto da formare delle vere e proprie comunità francofone stagionali nel sud degli Stati Uniti.

Dario Brancato, un mio amico siciliano che da Messina si è trasferito in Canada molti anni fa, odia l’inverno. A novembre camminavamo su questo stesso sentiero, e la sola idea di fare trekking a gennaio, a -30 gradi, lo ha fatto rabbrividire. “Ah no! Proprio no! Non mi piace per niente quando fa così freddo”, ha detto Dario, che insegna Italianistica e Linguistica qui a Montreal.

Parlando della Sicilia, Dario ha anche messo in dubbio il primato della stagione primaverile in questa regione, portando a esempio il successo dell’Ottobrata zafferanese e di Ottobrando a Floresta, in provincia di Messina. “Ottobre è diventato il periodo dell’anno in cui tutti escono la domenica per andare alle fiere. Il rapporto con l’autunno è profondamente cambiato”, ha detto Dario. “Ma voi ad Agrigento avete la sagra del mandorlo”. E subito immagino la primavera ad Agrigento e il profumo vertiginoso del mandorlo in fiore… mentre il mio io canadese rabbrividisce.

Giro l’ultima curva del sentiero e arrivo nel “Luogo del Fuoco Imponente”, la cima del parco Tiohtià:ke Otsira’kéhne, che è ora un belvedere di pietra che si affaccia a nord-ovest di Montreal. In primo piano si vede un complesso di appartamenti di lusso in cemento armato dallo stile modernista, e poi il centro sportivo dell’Universitè de Montreal che ospita un palazzetto al coperto per l’hockey e una piscina olimpionica. L’intera area è stata sottoposta a un’opera di rimboschimento e riqualificazione, dopo essere stata utilizzata come discarica per la neve e la terra fino alla metà degli anni ’80, durante la costruzione del prolungamento della metropolitana. Nelle giornate limpide, in lontananza sono visibili le Laurentian Mountains. Alla mia sinistra c’è il sentiero che circonda l’intero Mount Royal. È una passeggiata di un paio d’ore. Dietro di me c’è uno degli ingressi del Cimetière Notre-Dame-des-Neiges, “Il Cimitero di Nostra Signora della Neve”. La tomba più antica che vi si trova risale al 1855. Non lontano dal belvedere c’è un acero saccarino di 254 anni, e una quercia rossa di 220 anni.

Eppure, l’Olivo del Giardino della Kolymbetra ha 600-700 anni; la città di Akragas è ancora più antica, e il Mare Africano ancora più antico della città di Akragas. Ci sono voluti millenni per forgiare la Sicilia come è adesso, così come per forgiare l’anima siciliana. Chi arriva oggi su queste coste rappresenta l’ultimo capitolo di un lungo processo storico, teso ma ininterrotto, di migrazione nel Mediterraneo.

Intanto, qui in Canada, io sono un’italo-canadese e un’anglo-quebecchese, una turista per caso, una nomade. In Canada faccio parte dell’Associazione Joppolese di Montreal. In Canada lavoro in inglese, parlo con mia madre in siciliano, faccio la spesa in francese, leggo Elena Ferrante in italiano, parlo con i miei cugini in italiese (un italiano misto a inglese e francese). Sogno in inglese e, a volte, in siciliano. Nei miei sogni c’è un passaggio sotterraneo che dalla Signora della Neve porta a Demetra e Persefone. In tutta la Sicilia non c’è un luogo che sia per me più sacro del Tempio di Demetra e del Santuario Rupestre nella Valle dei Templi, se non la casa di famiglia di Joppolo. ​

Dal Santuario Rupestre, nel mio sogno, il passaggio sotterraneo continua fino al cimitero di Joppolo, che confina con la terra della mia famiglia dove il melograno dà i suoi frutti. Ci sono molti Lo Dico a Joppolo e fuori dall’Italia e nella Storia della diaspora italiana. Ho cominciato molto tempo fa a scrivere professionalmente il mio nome come “LoDico”, ma in realtà sul passaporto è “Lo Dico”, e altrove è “Lo-Dico”. Le modifiche di quello spazio tra “Lo” e “Dico” sono una metafora di quel passaggio sotterraneo e una metafora del luogo in cui vivo, uno spazio mitico in cui la geografia e il tempo si contraggono e si espandono, si svuotano e si riempiono. È un luogo di connessione e disconnessione, di unione e di separazione. È uno spazio in cui io sono qua e là, ovunque e da nessuna parte. Here and there and everywhere and nowhere.

Ed ecco di nuovo David Byrne, il musicista anglo-americano. Ho di nuovo in testa quella canzone in particolare, Road to Nowhere. Fa parte della colonna sonora della mia giovinezza, una colonna sonora in cui Madonna ed Eros Ramazzotti se la giocavano alla pari. Road to Nowhere, nel 2020, durante una pandemia che mi ha impedito di tornare a Joppolo, ha assunto un significato diverso:

There’s a city in my mind

Come along and take that ride

And it’s alright, baby, it’s alright

And it’s very far away

But it’s growing day by day and it’s alright.

C’è una città nella mia mente

Vieni e facciamoci un giro

E tutto va bene, piccola, tutto va bene

Ed è molto lontano

Ma cresce di giorno in giorno e tutto va bene.

La canzone fa parte di uno spettacolo, American Utopia, che Byrne ha portato a Broadway. Spike Lee ne ha tratto una versione televisiva, che io ho visto un sabato sera, in casa da sola a causa del lockdown. Osservavo quei corpi che riempivano il palco di musica e di danza, di gioia e di bellezza e, essendo alla vigilia delle elezioni americane, anche di un’acuta protesta artistica. Ero in lacrime. Guardavo quel pubblico di prima della pandemia, gli spettatori uno accanto all’altro, inebriati da tanta vicinanza. Anche attraverso lo schermo, l’impatto che la musica dal vivo aveva sulle persone era palpabile, e anch’io l’ho vissuto indirettamente attraverso di loro. Le canzoni di quello spettacolo mi ossessionano da allora.

Se Bac Bac è un’arteria del corpo ferito della vecchia Agrigento, e se Bac Bac è la memoria, anche questa eterna espatriata è un corpo ferito in cui i ricordi oscillano dal bac-bac al tam-tam a un’utopia fatta di un qua e di un là. There’s a city in my mind. La città nella mia mente esiste in quello spazio tra “Lo” e “Dico”.

L’autunno, con le sue seduzioni, è agli sgoccioli. L’inverno inizierà ufficialmente il 21 dicembre. Adesso la neve è qui per rimanere, e per Natale i gradi crolleranno a -15, una temperatura che in Canada non è considerata ancora troppo rigida. Questo inverno pandemico è alle porte, come una deriva nel buio, mitigata però dalla speranza di un vaccino e dal ritorno a Joppolo. Mi manca la Sicilia, certo. Ma, in fondo, non me ne sono mai andata.

Traduzione a cura di Valerio Vittorio Garaffa, regista teatrale, originario di Modica, che lavora tra l’Italia, il Canada e gli Stati Uniti.​ Prossimamente: per la Seconda Parte di questa serie, seguite Francesca LoDico in un viaggio attraverso il più grande cimitero del Canada, dove sono sepolti molti Italiani.​

Di Bac Bac