Alcune osservazioni sulla Sicilia di Filippo Tommaso Marinetti

di Andrea G.G.Parasiliti

Durante un convegno milanese sull’editoria del ’900, l’amico Mauro Chiabrando, cultore di arti grafiche e già direttore della rivista “Charta”, mi disse che il Futurismo in Sicilia ebbe secondo lui il gusto della migliore pasticceria siciliana, poi mirò meglio e sparò: «è un cannolo». Questa idea mi piacque, e credo che sarebbe piaciuta anche a Marinetti giacché il cannolo ha una tipica forma belligerante e, in più, i canditi sono come dei proiettili colorati, degli shrapnel, che ben potrebbero corrispondere ai dettami della ricostruzione Futurista dell’Universo, dell’estetica della Guerra-Festa e del Manifesto della cucina Futurista. In effetti, il futurismo in Sicilia riserva più di una sorpresa. Pensiamo innanzitutto a quanto aveva già detto nel 1984 il noto studioso delle avanguardie storiche, Giovanni Lista nel suo Le livre futuriste: de la libération du mot au poème tactile…

Bene, Giovanni Lista ritrovandosi a compilare un primo repertorio dei «poeti, degli scrittori e di qualche illustratore di libri futuristi», notò il fatto che la Sicilia avesse fornito «il maggior numero di scrittori al movimento di Marinetti». Ovviamente questa affermazione ci incuriosisce e allo stesso tempo ci costringe anche a prendere sul serio dei fenomeni apparentemente periferici. A un primo sguardo infatti, di fronte ai tanti proclami di Marinetti contro una Roma passatista, così come Venezia e Firenze, entrambe altrettanto passatiste, cioè città museo, mummificate, schiave del proprio passato, saremmo portati a immaginare Milano quale unica «Grande città tradizionale e futurista» (come titola un libro di memorie di Marinetti).

Filippo Tommaso Marinetti

Tuttavia la Sicilia di inizio Novecento, non è quella immobile e statica del Gattopardo… e attrae Marinetti, nato com’è noto ad Alessandria d’Egitto.

Per prima cosa, l’isola, terra del Simun (il vento africano) e dei vulcani, è abitata dai «Saraceni d’Italia» come scrive il fondatore del Futurismo nel suo aeroplano del papa del 1914, uscito in prima edizione a Parigi nel 1912 con titolo Le Monoplan du Pape . Ed è proprio in questo «romanzo profetico in versi liberi» che Marinetti immagina di partire dalla propria camera «chiusa da sei lati come una bara» per volare verso la Sicilia definita «Nuovo cuore d’Italia», nel primo capitolo, al fine di dirigersi verso l’Etna per raccogliere «I consigli del Vulcano» (capitolo 2), e poi attardarsi presso il Vulcano, al capitolo 3 a prendere lezioni di futurismo («Nel dominio di mio padre, il Vulcano»). L’Etna infatti, sulla quale nel 1999 la mai abbastanza compianta filologa Maria Corti scrisse quel delizioso volume dal titolo catasto Magico – un libro sul rapporto fra l’Etna l’immaginario e la letteratura dall’età antica ai giorni nostri – non disdegnò di affascinare anche il padre del Futurismo. Il risultato della malìa, della fascinazione, fu un Marinetti rapito dai giochi pirotecnici, dall’attività ininterrotta del vulcano, e dalle sue continue creazioni effimere. Il vulcano, infatti, crea delle opere d’arte immense, magnifiche, e le distrugge all’istante, «con lo schifo e il terrore di vederle durare», dirà l’Etna a Marinetti nell’ aeroplano del Papa

Insomma, il vulcano è l’elemento antipassatista per eccellenza. Un elemento così futurista che sembra essere stato creato apposta da Marinetti nei suoi Manifesti, o quanto meno creato per Marinetti. In altre parole l’Etna è il più grande regalo che il buon Dio avesse mai potuto fare al padre del Futurismo, il quale chiamerà a sua volta «padre» l’Etna.

Federico De Maria


Al di là delle suggestioni ambientali e letterarie, è certo che Marinetti in Sicilia trovò sempre un’accoglienza calda ed entusiasta, e proprio a Palermo aveva sodalizzato col poeta Federico De Maria, fra gli ideatori del celebre Manifesto del Futurismo del 1909, come ha messo in rilievo negli anni ’80 Giuseppe Miligi nel suo Prefuturismo e primo futurismo in Sicilia. O ancora, per fare un altro esempio, Marinetti in Sicilia, era riuscito ad attirarsi l’ammirazione e l’aiuto di Alessandro Tasca, principe di Cutò, zio materno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ça va sans dire, l’autore del Gattopardo. Un aiuto provvidenziale quello del principe di Cutò, ché Marinetti e i suoi amici durante le proprie serate futuriste, a forza di venire alle mani col pubblico fischiante e passatista, si mettevano spesso nei guai. Come quella sera del 7 settembre 1913 a Palermo, quando Armando Mazza (il “Bud Spencer” del Futurismo), arrivò financo a colpire un funzionario di
polizia… e meno male che intervenne lo zio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in perfetto stile monicelliano, a fare la supercazzola al vigile al fine di liberare il futurista.

Alessandro Tasca


Ma il supporto ricevuto da Marinetti non si fermò alla fase che possiamo chiamare «pre-futurista». Infatti ancora nel 1915, quando Marinetti divorziò col gruppo fiorentino della rivista “Lacerba” e aveva necessità di proseguire con la propria campagna futurista interventista in favore della Prima Guerra Mondiale, gli venne messa a disposizione da un giovane studente futurista di Messina, Guglielmo Jannelli, una rivista appena nata a Ragusa, e dal nome di “Balza”. Questa rivista era stata creata a Ragusa da Luciano Nicastro, futuro curatore della voce «Futurismo» nella Storia della letteratura italiana di Francesco Flora, e da Giovanni Antonio Di Giacomo detto Vann’Antò, poeta.

Ripensata tipograficamente da Vann’Antò, per renderla appetibile a Marinetti, questa rivista divenne, a detta dello stesso fondatore del Futurismo «La prima rivista veramente futurista». Uscita solo in 3 numeri, per le sue caratteristiche bibliologiche e per i suoi contenuti, (troviamo infatti scritti di Marinetti, opere d’arte di Boccioni, di Depero e di Carrà, Il Manifesto della scenografia futurista di Prampolini etc.) “La Balza Futurista” rappresenta un gioiello letterario, editoriale e artistico. Un cannolo, appunto.

Vann’Antò

Ma i canditi (non più il diavolo, ché è meglio non nominarlo) stanno nei dettagli. La tipografia della “Balza Futurista” venne più volte definita «una piccola tipografia di provincia», il cui nome venne spesso omesso o, come nel caso della Salaris, venne tramandato, erroneamente, in «tipografia Picciotto».

Tuttavia, consapevoli del fatto che per i Futuristi le questioni tipografiche non furono affatto secondarie, anzi, è all’avanguardia futurista che dobbiamo i libri d’artista, il libro oggetto d’arte in sé, la rivoluzione tipografica, i libri di latta o le angurie liriche, non possiamo tralasciare questi dettagli.

In più, come ci insegnò il buon vecchio Giorgio Manganelli, «i refusi non esistono». e il bellissimo refuso della Salaris “Picciotto” per “Piccitto” (che è il vero nome della tipografia di Ragusa) è già tutto un assaggio dell’arruolamento futurbellico che Marinetti promosse in Sicilia: “i picciotti futuristi volontari della Prima Guerra Mondiale”. Come anche ci mette davanti agli occhi la carne viva del poeta ragusano Vann’Antò, “picciotto” appunto di Marinetti, il quale Vann’Antò tanto si affannò per donare al fondatore quella che Marinetti stesso chiamò «La prima rivista veramente futurista», per tono, per trovate grafiche, per spregiudicatezza.

Fermo poi scoprire che la tipografia editrice Piccitto era già da fine ottocento una delle più importanti tipografie siciliane, per merito del barone Serafino Amabile Guastella, “il barone dei Villani”, come lo chiamava Leonardo Sciascia. Un uomo, Serafino Amabile Guastella​nato in un piccolo paesino collinare Chiaramonte Gulfi (oggi in provincia di Ragusa) nel 1819 e lì morto nel 1899 senza essersi mai spostato dall’antica Contea di Modica. Ma raffinato folclorista e bibliofilo, che mise l’acquolina in bocca a Italo Calvino a tal punto che Calvino nel 1969 scrisse un’introduzione alle Parità e le storie morali del Guastella, ripubblicate a Palermo in quell’anno, e poi nel 1976 portò il Guastella a trovare un confortevole angolino all’interno della Biblioteca universale Rizzoli.

Il fatto poi che Marinetti, abbandonato dal gruppo fiorentino di “Lacerba”, avesse trovato supporto in Sicilia grazie agli studenti siciliani Guglielmo Jannelli, Luciano Nicastro e Vann’Antò, al fine di procedere con le sue battaglie di guerra e di arte, più che un dettaglio è un segno.

La “Balza Futurista”, periodico futurista e interventista a carattere nazionale, edito a Messina e stampato a Ragusa, cos’è se non il simbolo di tutta un’altra isola rispetto a quella “immobile” alla quale siamo stati abituati dalla tradizione letteraria?

La “Balza futurista” se da un lato è simbolo della vittoria del Futurismo, capace non solo di penetrare ma anche di generare capolavori in periferia, dall’altro è anche il simbolo di una terra, per dirla con Marinetti, percorsa dall’ira dei vulcani. «o Siciliani! o voi, che fin dai tempi brumosi notte e giorno lottate a corpo a corpo coll’ira dei vulcani, amo le vostre anime che fiammeggiano come folli propaggini del fuoco centrale!» (da L’aeropoema del Papa ). Le cui «lave mi sembrano gli spiragli e gli sfiatatori delle macchine della nostra navigante Sicilia» (da un’altra opera di Marinetti sull’Etna, questa volta teatrale e dal titolo Vulcani , 1927).

Ed è così navigante la Sicilia futurista che i suoi figli si spostarono a Fiume d’Italia in preda all’Artecrazia istituita dal Comandante Gabriele D’Annunzio, e che proprio a Catania scoppiò il caso internazionale del Piroscafo Cogne. Di quella volta che questo grande piroscafo della società di navigazione Ansaldo di Genova, diretto in Argentina con un carico considerevole di sete, automobili, orologi svizzeri e altro materiale di valore, in parte di proprietà italiana e in parte di ditte straniere, venne catturato nel porto di Catania il 2 settembre 1920, per essere dirottato, appunto, verso Fiume, al fine di costituire per il Comandante D’Annunzio un importante mezzo di ricatto e, quindi, di sostentamento per la sua repubblica del Carnaro, a corto di viveri. E infatti, all’indomani del Natale di Sangue del 1920, il Natale in cui venne messa fine, dallo stesso governo italiano, all’Impresa di Fiume,​è ancora in Sicilia, e più precisamente a Catania, che troviamo la rivista dei futuristi fiumani.

La rivista, uscita a partire dal febbraio 1921, si chiama provocatoriamente “Haschisch”, è diretta da Mario Shrapnel nom de plume di Giambattista Melfi, e si autodefinisce la rivista più piccola del mondo (si tramanda un 9×11 cm, ma oggi non è più dimostrabile, non essendo più rintracciabile l’originale dei primi 2 numeri. Dal terzo il formato della rivista cambia). “Haschisch”, come è giusto che sia, è dedicata al capitano e poeta Mario Carli, fra i protagonisti dell’impresa di Fiume e capo degli Arditi d’Italia, nonché attentatore presso la Centrale elettrica di Milano in quel Natale 1920, quel Natale del sangue dei poeti, “degli artisti e libertari”, per dirla con Claudia Salaris, che se ne andarono a Fiume, tutti in preda al sacro fuoco dell’Artecrazia. Che cosa sono gli arditi, capitano Carli? «Gli arditi sono i futuristi di guerra».

E dunque «a Mario Carli, perseguitato dall’assoldata sbirraglia, il saluto fraterno di haschisch», è la dedica con la quale nel febbraio 1921, si apre questa rivista futurista e fiumana. “Haschisch”, il cui nome già di Fiume, della “Città olocausta”, tramanda gli odori, fu talmente sicura di sé da pubblicare il Manifesto del Tattilismo di Marinetti, cioè il Manifesto del secondo futurismo, vale a dire del Futurismo post Prima Guerra Mondiale. e come lo pubblicò lo criticò. Perché? Perché il Manifesto di Marinetti proibisce le mollezze, le inversioni e i paradisi artificiali nei quali gli intellettuali del dopoguerra si erano, dal punto di vista futurista, accoccolati… e in effetti gli artisti e libertari che se ne andarono a Fiume con D’Annunzio diedero vita a uno squisito ’68, certamente un poco più militare, con esercitazioni da Arditi di Guerra, ma pur sempre con droghe (in gran quantità, a tal punto da preoccupare anche D’Annunzio…), musica ovunque, belle donne e nudismo (pensiamo quanto meno all’aviatore-eroe Guido Keller e al gruppo della rivista “Yoga”). Mentre, ricordiamolo, “Marciare non marcire” era il motto di Marinetti…

Nella generosità che l’ha contraddistinto, il Futurismo ci ha donato della Sicilia un ritratto a propria immagine e somiglianza. È questa l’immagine di una terra per nulla immobile, ma anzi, ontologicamente in movimento per via del magma e della carne del Vulcano che la plasma e la rimodella a ogni eruzione. «Io non ho mai dormito» dice l’Etna a Marinetti nell’ Aeroplano del Papa , «Lavoro senza fine per arricchire lo spazio d’effimeri capolavori!». Ed è questo uno schiaffo, lo schiaffo del risveglio, che il Futurismo avrebbe già bello e preparato​per tutti i sonnacchiosi principi di Salina. Perché «la vita», ci dice Marinetti, «ha sempre ragione». Un’ultima curiosità: Mario Shrapnel, ovvero Giambattista Melfi barone di Sant’Antonino era originario di Chiaramonte Gulfi, come il barone Serafino Amabile Guastella, autore storico e consulente della tipografia Piccitto (quella della “Balza Futurista”). Ma di Chiaramonte Gulfi fu anche Telesio Interlandi, lo storico direttore del Tevere e della Difesa della razza , «il razzista di via della Mercede», per dirla con Giampiero Mughini. Ché Chiaramonte Gulfi ha tutta una storia d’amore e di fuoco con la carta stampata.

Tratto da: Andrea G.G. Parasiliti, Pagine roventi a temperatura ambiente , prefazione di Tino Vittorio, Algra editore, Viagrande 2020.​

Di Bac Bac