di Guido Ruotolo

foto di Tano Siracusa

Parlava sottovoce. Quasi a voler misurare le parole. Dall’italia rimbalzavano terribili notizie su decine di migliaia di immigrati (come un organetto il numero cresceva a dismisura arrivando anche a mezzo milione e perché no, a un milione) pronti a salpare dalle coste libiche verso il nostro Paese. E lui, Vincenzo Tagliaferri, aveva una percezione molto diversa sulla consistenza di questi numeri. Dei numeri dei clandestini in Libia.                                                                                                                                                               

Quelle poi erano voci che rientravano nel braccio di ferro tra la Libia di Gheddafi, che voleva uscire dall’isolamento e dall’embargo voluto dall’Occidente, e quel partito della catastrofe e dell’allarmismo di casa nostra che oggi individueremmo nel fronte degli “odiatori di professione”. E dunque Gheddafi si proponeva all’Europa come il “gendarme” in grado di controllare i flussi migratori mentre gli “odiatori” di casa nostra proponevano immaginifici blocchi navali e baionette e fili spinati per difendere le nostre coste.


Io mi trovavo già a Tripoli, pronto a partire per Khufra, l’oasi più isolata e lontana dalla capitale. Ai confini con l’Egitto, il Sudan e il Ciad. Ma c’erano “incomprensioni” tra il ministero degli Esteri che mi aveva autorizzato il viaggio e quello degli Interni. Agli Interni non volevano che andassi a Khufra: “Il volo di linea è stato annullato”. Io mi dichiarai disposto a raggiungere l’oasi anche andando in jeep (impresa pressoché impossibile). Proposta accolta con una grande smorfia.


Insomma, aspettavo che la situazione si sbloccasse affidandomi ai miei interlocutori libici. In quegli anni, ero diventato amico di Vincenzo Tagliaferri, allora vicequestore della polizia di frontiera, spedito in Libia da Roma come ufficiale di collegamento, e diventato nel tempo uno dei massimi conoscitori del fenomeno migratorio e della Libia. Tanto bravo che poi l’Europa l’ha cooptato nelle sue istituzioni operative.


Un giorno, aspettando dunque di andare a Khufra, che si trova sulla linea del Tropico del cancro, per me il luogo più a sud del deserto africano che ho mai calpestato, seduti al bar della Medina, sotto la Torre, Enzo mi parlò della presenza di migranti in Libia, svelandomi l’esistenza della città dei fantasmi.


Era la prima e unica volta che ne sentii parlare. Della sua esistenza non ho mai avuto una conferma ufficiale né da fonte libica né da quella italiana. Era il segreto di Enzo che ho custodito in tutti questi anni.

Devo riconoscere che una città “terra di nessuno” l’avevo già vista e si trovava sulla strada tra Tripoli e Zhwarah. Con dei poliziotti di frontiera dovevamo raggiungere il confine con la Tunisia, dove i libici avevano individuato una ventina di migranti, molti giovani, tutti a piedi nudi e inzuppati d’acqua di mare, che stavano per salpare a bordo di un gommone per Lampedusa. E che la pattuglia di poliziotti aveva fermato e parcheggiato in un container tra la spiaggia e il deserto.


Prima di raggiungere Sabratha, sulla sinistra della strada principale ecco la città “terra di nessuno”. Me ne aveva parlato nel suo ufficio a Tripoli, il ministro degli Esteri Abdulharam Shalgham. Che mi raccontò anche due episodi che non ho mai dimenticato: Muammar Gheddafi lanciò per primo l’allarme sulla esistenza di Al Qaeda denunciando il duplice omicidio di turisti (credo tedeschi ) a Cirene, alla metà degli anni Ottanta. Il secondo, che nel deserto del Fezzan, verso Ghat, era stato scoperto un campo di addestramento di terroristi islamici.


Quando entrai da solo nella “città fantasma” – la macchina della polizia che mi accompagnava in questo viaggio aspettò ai bordi della strada –  mi fu chiaro che mi trovavo dentro una città organizzata, fatta di tende e baracche, con negozi e locali di varie dimensioni. E una popolazione arcobaleno, come del resto lo è la stessa Libia che conta un centinaio di etnie.


La prima domanda che mi venne in mente fu la seguente: “Come é possibile che nella immensa Libia, il regime di Gheddafi aveva deciso di non esercitare il proprio controllo su una città “fantasma” nell’area metropolitana di Tripoli? Che regime è se lascia fare a una autorità suprema alternativa al regime stesso?


Khufra e al Qatrun, alla frontiera con il Niger, sono sostanzialmente le due porte d’ingresso più importanti dei flussi migratori della fascia sub sahariana e dei paesi africani. Gli estremi di una tenaglia. A Khufra arrivavano soprattutto i flussi migratori dal Corno d’Africa, Al Qatrun invece era l’ingresso di migliaia di migranti partiti dall’Africa centrale fino alla Nigeria, Senegal, al Mali.


Ricordo che prima che si aprisse la rotta libica, quei flussi si imbarcavano diretti alle Canarie. E l’Oceano era ancora più crudele del Mediterraneo, trascinando a fondo centinaia di migranti e decine di imbarcazioni.
Ma l’altra valvola della pentola a pressione dove i flussi migratori si dirigevano era rappresentata da Ceuta e Medilla, le due enclave spagnole in Marocco, da dove decine di migliaia di migranti entravano direttamente in Europa. E fu proprio una rigida chiusura di Ceuza e Medilla a dirottare il flusso migratorio verso la Libia. Gli ultimi dieci anni prima della caduta di Gheddafi sono stati molto movimentati. Si è giocata anche una partita a scacchi tra il Colonnello e l’Italia, mentre l’Europa inizialmente faceva da spettatrice e solo dopo scese anch’essa in campo.


Vincenzo Tagliaferri, dunque, sorseggiando il thè mi parlò della città fantasma: “Un giorno mi portarono a Khufra e con mio sommo stupore ci incamminammo con le jeep verso il nulla. Deserto, dune e un gran caldo. Avremmo percorso una quarantina di chilometri in direzione Ciad quando all’improvviso vedemmo questo accampamento immenso fatto di jeep, tende, camion. Noi eravamo a distanza ma l’emozione fu forte. Nel cuore del deserto almeno quarantamila uomini, donne e bambini aspettavano di proseguire il loro viaggio verso l’Europa”. Una città fantasma nel deserto.


Alla fine riuscii  ad arrivare a Khufra dopo tre ore di volo su un piccolo aereo. Tra Sirte e Bengasi si lascia la costa e poi si punta al deserto fino ad arrivare all’oasi. Viaggio molto diplomatico. Clima di controllo rigido delle forze di polizia. Trasferimento veloce dall’aeroporto a un centro di detenzione. Pochi “ospiti”. Somali. Provai a chiedere alle “autorità locali” della città fantasma. Nessuna risposta. E mi chiesi anche che fine avessero fatto tutti gli ospiti del centro di detenzione.


Dopo tanti viaggi come questo ho capito che le testimonianze dei migranti sono eterodirette. Non sono cittadini liberi di dire quello che vogliono. I nostri viaggi servono a respirare l’aria del posto, a cogliere il clima. (E a distanza di quasi vent’anni i ricordi che affiorano, aiutano a comprendere i motivi e le ragioni di quei reportage).
Sei milioni di abitanti su un territorio sterminato (la Libia è il quarto Paese africano per la sua estensione). Oltre quattromila chilometri di confini interni, mille e ottocento chilometri di linea costiera. E almeno due milioni di irregolari. Ma di questo numero così imponente, solo una percentuale aspirava a raggiungere l’Occidente. Quanti fossero, neppure i libici riuscivano a capirlo.


Un altro episodio che riaffiora dal passato è un incontro. Eravamo nel regione dell’ Akakus, uno dei deserti africani più belli, uno dei luoghi magici dove si racchiude la storia dell’umanità, con rocce rupestri, graffiti e disegni che risalgono a 20.000 anni fa. All’improvviso sbuca una carovana di pensionati lombardi. Amanti dei viaggi tipo “Avventura nel mondo”, erano partiti con la nave da Savona a Tunisi e poi erano entrati in Libia.
Fuori succedeva di tutto, parlo dei clandestini, delle minacce e dei tumulti di Bengasi, e nel deserto più bello ecco dei turisti italiani entusiasti del loro viaggio.
La Libia era anche questa.


E già, Bengasi. Che tragedia. Ero a Roma quando successe. Rivedo le news dell’epoca per fissare l’anno. Era il 17 febbraio 2006. Il leghista Roberto Calderoli aveva deciso di accendere la miccia nella Santabarbara. In televisione si scoprì facendo vedere la sua t-shirt con la caricatura di Maometto. Intendiamoci. Io la penso diversamente da tantissimi, dalla maggioranza dell’umanità democratica. Credo che le religioni non possano essere materia di dileggio, di offese, di caricature. A maggior ragione quando una vignetta anti-Islam viene brandita come strumento di lotta politica (Calderoli e la Lega). A Bengasi, la manifestazione di protesta contro Calderoli sfuggì di mano. Il consolato italiano fu bruciato e distrutto e il numero dei morti dei manifestanti fu di diverse decine. Quei morti sono convinto ancora oggi li ha sulla coscienza la Lega di Umberto Bossi e Matteo Salvini.


L’Islam radicale è sempre stato combattuto dalla Libia del Colonnello. E l’Islam e il “libro verde” di Muammar Gheddafi hanno rappresentato la costituzione materiale della Libia. Il “welfare del petrolio” ha garantito per quarant’anni la stabilità della Libia. Case, scuola e sanità per tutti. Gli “stranieri” erano la manodopera dell’industria petrolifera, dei lavori poveri. Mondi diversi che convivevano tra loro. Il giocattolo si è rotto quando i flussi migratori che transitavano dalla Libia sono stati ritenuti una minaccia dall’Occidente.


Alla fine del novembre del 2010, Gheddafi tenne una lezione davanti ai leader europei e africani giunti a Tripoli per partecipare al meeting “Africa-Europa”. Sotto un immenso tendone, vedere Gheddafi che come un maestro teneva una lezione di storia ai leader politici e istituzionali ospiti fu indimenticabile. Perché Gheddafi  risalì alle origini del colonialismo, dello sfruttamento delle risorse materiali dei Paesi poveri, esaltando il giro di boa della Storia che stava riconsegnando la dignità a quei popoli sfruttati per secoli dai paesi colonialisti.

Di Bac Bac