di Guido Ruotolo

foto di Tano Siracusa

Non ricordo quando, doveva essere intorno alla metà dei primi anni Duemila, ma non avrei mai immaginato che quelle immagini che vidi quella volta mi avrebbero accompagnato negli anni e penso che me le porterò fino alla fine dei miei giorni. Mi trovavo al ministero dell’Interno a Tripoli e il responsabile del contrasto all’immigrazione clandestina prese da un cassetto della sua scrivania un librone fotografico. Insieme a una troupe di Tg5 e a mia moglie fotografa, stavamo per fare uno dei viaggi più sconvolgenti nel deserto libico, alla ricerca della rotta dei clandestini, per raccontare i progetti finanziati dalla Ue sul controllo delle frontiere a sud della Libia, al confine con il Niger.
Dunque, il funzionario degli Interni aprí quell’album degli orrori e pensai subito che fosse il racconto della Pompei africana. Corpi senza vita, sommersi o che affioravano dalla sabbia del deserto. Cadaveri quasi pelle e ossa. Tanti. Intere famiglie che si erano perse, che erano state abbandonate dai “Caronte” del deserto, e avevano finito l’acqua morendo così per sete, mancanza di cibo e caldo.
Il deserto in tutti questi anni ha inghiottito decine, forse centinaia o migliaia di migranti e nessuno ha mai pianto per loro. Una volta, era il novembre del 2007, nella sua tenda tripolina, il colonnello Gheddafi si incontró con il nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema.
Nei primi minuti degli incontri istituzionali, a uso e consumo di telecamere e fotografi, gli interlocutori parlano del più e del meno. In quel caso ricordo che Gheddafi chiese a D’Alema della sua passione della vela. Il nostro ministro parló di quell’immenso oceano di sabbia che era il deserto, ricambiando così la sensibilità dell’ospite Gheddafi.
Quanto è vera quella che sembra una banalità e che ci porta a dire che il mondo è un caleidoscopio. Dipende da dove ti trovi e il tuo osservatorio cambia radicalmente. Priorità, principi, bisogni, regole. Non sono tutti uguali, dipende dalle latitudini e longitudini dove ti trovi.
Se visiti un campo profughi in Zambia, nell’Albania degli anni Novanta o in Turchia, sicuramente rimarresti sconvolto rispetto a quelli che tu ritieni standard di vita accettabili.
I morti del deserto e quelli del Mediterraneo. Le violenze sessuali (vittime donne e bambine), fame e sete. Rapine. Nei viaggi disperati di milioni di uomini e donne che vogliono raggiungere il mondo ricco e opulento rappresentato dall’Occidente, ci sono ostacoli e violenze insormontabili e indicibili.
In quegli anni della rotta libica, che si era aperta e formata all’inizio del nuovo millennio – dopo che le enclave spagnole in Marocco, Ceuza e Medilla, erano state sigillate – Gheddafi provò a usare i clandestini come una clava per convincere l’Europa a spendersi per far ritirare tutte le sanzioni Onu in vigore contro la Libia. L’Italia si é spesa molto per il riconoscimento a livello internazionale della svolta libica. E prima della rivoluzione che portò alla morte di Gheddafi, i parlamenti dei due paesi firmarono, nel 2008, il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione per sanare la ferita del periodo coloniale fascista in Libia.
Avevamo molto credito in Libia – basta ricordare che fu un ingegnere italiano a scoprire il “petrolio” nel deserto – ma lo abbiamo consumato in questi ultimi anni, perdendo una capacità di iniziativa politica e diplomatica. E lasciando al protagonismo di altri (Francia e Turchia) la gestione della transizione.
Ci sono voluti anni, e tanta esperienza per rispondere a una domanda che mi sono sempre posto: cos’è che spinge un uomo, una donna, un vecchio o un bambino a rischiare la vita? Perché una umanità becera non si è mai posta questo dilemma e tratta questo popolo dolente come un branco animale da annientare, da riportare nella tana?
Confesso che negli ultimi anni la guerra innescata dal leghista ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha avuto solo questa sua ragione d’essere: cercare di vincere una guerra tutta ideologica.
I numeri. Se solo ci fosse un tavolo della “ragione” dove discutere di numeri e statistiche vi accorgereste di quel partito della catastrofe che in questi anni ha voluto amplificare le paure degli italiani senza che ve ne fossero ragioni valide.
Il viaggio della mia vita per raccontare le vite degli altri in realtà non è mai stato un insieme di ricerca di storie individuali ma numeri, quantità. Ed é un rimorso che mi porto dentro, anche se lo sforzo che penso di essere riuscito ad affrontare mi ha portato a comprendere il dolore e il coraggio di milioni di esseri umani che mettono in gioco la loro vita per emigrare, per fuggire dagli orrori di casa, da violenze e discriminazioni razziali o religiose.
Noi siamo miopi, perché siamo abituati a vedere solo la fine del loro viaggio verso l’Italia, Lampedusa, Europa. E pensiamo che solo in quel tratto di mare rischiano la vita. Come se fosse un roulette russa: basta prendere una barca che galleggi, un tubolare di un gommone che non sia bucato, un carico di “merce umana” che non faccia affondare l’imbarcazione per il troppo peso. Ed è fatta.
E invece dimentichiamo, non sappiamo, facciamo finta che non esista il gioco della vita e della morte che accompagna i profughi, i clandestini, dal primo momento in cui lasciano il loro Paese.
Da quando si affidano a qualche clan etnico locale che in franchising gestisce tutto il viaggio, lasciando al clan del Paese che devono attraversare la gestione della “merce umana”. Persino a Tripoli, come hanno dimostrato le attività di contrasto al traffico di clandestino, ogni clan etnico aveva il suo rappresentante che si prendeva in carico il gruppo di viaggiatori e che trattava con i “locali” le partenze per Lampedusa.
Qualche anno prima di quel viaggio che aveva come destinazione Al Qatrun, il punto di confine tra la Libia e il Niger (il confine si estendeva per 400 km), doveva essere il 2001-2002, il mio amico Valentino Parlato, che era stato direttore del Manifesto, e che conoscevo da almeno trent’anni, un giorno mi diede appuntamento all’hotel Excelsior. Lui, Valentino, era tripolino, nato a Tripoli nel 1931, uno dei fondatori del partito comunista libico, che sotto il protettorato inglese fu cacciato dalla Libia nel 1951.
E con la Libia di Gheddafi ebbe sempre un rapporto di attrazione, e le sue critiche furono sempre costruttive. Quel giorno all’Excelsior mi presentò l’ambasciatore libico Hafed Gaddur, che da console a Palermo sarebbe diventato prima ambasciatore presso la Santa Sede e poi accreditato al Quirinale come ambasciatore in Italia.
Negli anni, siamo diventati amici con Gaddur, che non mi stancherò mai di ringraziare per la sua pazienza. Sempre pronto a spiegare e soprattutto a soddisfare le mie richieste. Insomma grazie a lui ho conosciuto la Libia da vicino negli anni di Muammar Gheddafi.
Kufra, al Qatrun, Zwarah, Ghadames, il deserto dell’Akakus, Leptis Magna e Sabratha. E naturalmente Tripoli e Sebha. All’appello mancava la Cirenaica (che avrei conosciuto dopo la caduta di Gheddafi). Se non una volta, in occasione di un anniversario della Rivoluzione, che Gheddafi volle celebrarla ad Al Beida, città importante per la storia della Libia.
Di quel viaggio sulle rotte dei clandestini, nel deserto che attraversammo lasciando Sebha, la capitale del Fezzan, il sud della Libia, incrociammo diversi camion strapieni di tutto, materassi, balle, coperte che formavano delle pareti alte quattro, cinque metri. E dentro uomini e donne.
Ricordo che ne incontrammo uno fermo nel deserto, con una cinquantina di persone accampate attorno. Aveva rotto gli ammortizzatori e rischiavano di stare lì fermi per alcuni giorni.
Al Qatrun era una garitta e una sbarra che si alzava al passaggio di torpedoni. Qualche chilometro indietro c’era il villaggio e una sorta di centro di detenzione.
Ragazzi nigeriani tatuati detenuti. Pieni di collera. Erano corrieri della droga più che clandestini. La Libia di Gheddafi é stata anche  “panafricana”. Tutti gli africani dei paesi confinanti della Libia, per esempio, non avevano bisogno di un visto per entrare in Libia.
Il deserto poi per eccellenza é sempre stato attraversato da carovane di nomadi. Diciamo che l’apparato militare e amministrativo del regime di Gheddafi non era preparato ad affrontare le tematiche dell’accoglienza. Esperti a individuare i trafficanti di droga, scottati dal fatto che la droga aveva fatto il suo ingresso anche nel mondo legato a Gheddafi, i figli del regime insomma. E dunque, chi non aveva documenti e passaporti veniva recluso in centri di detenzione.
Noi avevamo degli autisti tuareg. Ricordo che al calar del sole si facevano guidare dalle stelle. Centinaia di chilometri per raggiungere, sulla strada del ritorno, Sebha. Mi rimase impresso una testimonianza: “I trafficanti di clandestini viaggiano su Pik up. Per portare più passeggeri rafforzano gli ammortizzatori bloccandoli con pezzi di legno o ferro. Rendendo così rigido il mezzo. Basta un avvallamento, una duna e il pik up fa un balzo. Di notte succede che qualche clandestino venga sbalzato fuori. La morte è in agguato. E per loro il destino é segnato.

Di Bac Bac