Pubblichiamo  un’ampia intervista a Maurizio Iacono. Per una volta chiediamo ai lettori qualche minuto in più.  

foto di Tano Siracusa
 
 
 
 
Tu sei nato e cresciuto ad Agrigento, vi hai vissuto gli anni forse più importanti per la tua formazione umana. Poi, dopo il liceo, vai a Pisa, ti iscrivi a Medicina proprio mentre il ’68 sta dando un senso diverso ai tuoi 18 anni. E’ anche per questo che decidi quasi subito di cambiare facoltà e iscriverti alla Facoltà di filosofia?
 
 
Il 16 ottobre 1967 è per me una data simbolicamente decisiva. Feci l’ultima partitella di calcio a S. Leone davanti all’Aster (allora si poteva) e l’ultimo bagno. Fu inconsapevolmente quasi un rito di passaggio. Sapevamo che erafinita un’epoca e che ciascuno guardava avanti. Palermo, Catania, Padova, Pisa,Roma. Partii da Agrigento con Giovanni Taglialavoro, il quale aveva le idee piùchiare di me. Andava a fare Filosofia a Pisa, mentre io mi ero iscritto aMedicina. Mi piaceva, eppure avevo un rovello. Era fortemente attratto dallaFilosofia, ma non ebbi il coraggio di scegliere. Medicina corrispondeva aidesideri dei miei genitori e dei miei parenti e io stavo partendo pieno di sensi dicolpa perché, a parte mio padre, nessuno nella mia famiglia vedeva di buonocchio questa lontananza. Lo stesso mio padre mi chiese di scegliere: la fiat 500 in regalo o l’università  in continente. Non ebbi dubbi: Pisa. Quando vi arrivai, mi sentii nello stesso tempo smarrito e con un forte senso di libertà. Capitai proprio mentre il ’68 stava incombendo e il clima, già nel novembre di quell’anno era stupendamente caldo. Giovanni e Fonino Gaglio, che arrivò a Pisa a fare medicina poco dopo, essendosi trasferito dall’università di Palermo, avevano una coscienza e un’esperienza politica di gran lunga superiore alla mia.
Apprendevo e partecipavo al movimento e alla politica. Entrambi non erano affatto separati dal sapere e dalla conoscenza, anzi, l’idea era quella di appropriarsene per renderle disponibili a tutti. Era l’epoca di don Milani e dei ragazzi di Barbiana. Cattolici sociali come Cesare Moreno, napoletano, e Carla Melazzini, valtellinese, che poi avrebbero inventato a Napoli i Maestri di Strada, sarebbero piaciuti sicuramente a Bergoglio. Gli operai della Saint Gobain e della Piaggio avevano un orgoglio di classe e un senso del sapere che si intrecciava con gli studenti in lotta. In fondo fu la caratteristica del movimento di Pisa. Ciò che accadeva a Roma, Parigi, Berlino, Berkeley lo si sapeva in tempo reale anche se non c’erano internet, i cellulari e i social. Il tempo della critica faceva contesto, creava la cornice al cui interno si dava senso all’agire e alla vita. Ciò che tuttavia mi travolse e mi convinse fu quando, mentre guardavo passare una manifestazione a Borgo Stretto, una coppia più anziana di me, mi vide, dovette intuire il mio desiderio e la mia timidezza, mi presero a braccetto e mi trovai felice a manifestare, eguale a loro, eguale agli altri, anche se eravamo così diversi per come parlavamo e ci portavamo. Mentre le lotte e le contestazioni si diffondevano, cominciai a maturare la scelta. Mi chiesi perché avevo scelto medicina e non filosofia. Fu per me un dramma esistenziale, una lotta tra il mio io e quel falso sé che aveva dominato l’immagine di me stesso. I miei amici e compagni compresero il dramma. Alla fine decisi per filosofia e mi iscrissi senza dirlo ai miei genitori. Tempo dopo scrissi loro una lunga lettera e loro capirono.
Per quanto si voglia essere rivoluzionari e contestatori, i conti con te stesso, con le tue insicurezza nascoste, con le tue paure, li devi pur fare. Ma di sicuro il ’68 mi insegnò a essere me stesso nelle scelte.
 
 
Come ricordi la città che lasci dopo il Liceo?
 
Feci la foto al primo grande palazzo che cominciò a deturpare Agrigento.   Ne seguirono molti altri e poi la frana del 19 luglio 1966. Ricordo che risalii la strada da S. Leone ad Agrigento a cavallo della vespa guidata da Pino Cipolla.Una scena da fantascienza. E poi la protesta sociale degli operai senza lavoroambiguamente diretti da chi probabilmente era stato connivente con quello chefu chiamato il Sacco di Agrigento. Tutto ciò conviveva con l’estate alla Focetta, un luogo che ci attraeva moltissimo come oggi possono attrarre le discoteche, el’assoluta inconsistenza di un mondo fintamente aristocratico (o forse decaduto)che giocava alle danze, ma del tutto preda di uomini senza scrupoli in una cittàsenza piano regolatore, il cui senso comune dominante allora era l’ostilità verso la Valle dei Templi (sti quattru petri) che impediva agli agrigentini di edificareverso la costa. Un mondo che con una modernizzazione selvaggia stava diventando falso e brutto. Restavano il forte senso dell’amicizia, gli amori e le notti passate al Bar Sport di S.Leone ad ascoltare il grande Tonino Brucculeri.
Quando me ne andai, sia pure con grande rimpianto e nostalgia perché quel mondo e quei luoghi mi sono rimasti dentro, sentivo che la Agrigento che amavo, quella della mia infanzia, quella di Piazza Cavour con le interminabili partite dicalcio, quella in cui si stava per strada e dove l’amicizia contava veramente, stava cessando di esistere e non per trasformarsi in un mondo migliore.
 

Dopo la laurea rimani all’Università di Pisa, dove diventerai preside della Facoltà di Filosofia. Durante questi decenni di intensa attività accademica e di ricerca, sicuramente eccentrica rispetto al canone del professore ‘cattedratico’, non hai interrotto i tuoi rapporti con Agrigento, dove ritorni ogni anno, anche dopo la scomparsa dei tuoi genitori. Prima con una maggiore presenza ‘pubblica’ in città, che negli ultimi anni si è un po’ andata diradando. In questi decenni hai visto la città cambiare. Come, con quale cifra di ‘modernità’?

Non voglio sembrare impietoso, perché in quello che dico vi è in realtà un grandissimo amore, forse deluso. Sono felice di esserci nato e di avere passato la mia infanzia ad Agrigento. Dirò di più. Mi rendo conto che paragono ogni luogo, ogni spazio, ogni luce, ogni odore a quelli dell’infanzia. E’ un’esperienza comune a chi se ne è andato? Non lo so. Ma dopo? Ho visto la città cambiare in peggio. Parlavo di modernizzazione selvaggia. Basti pensare al traffico caotico e addirittura all’idea di costruire a S. Leone un lungomare dove non si vede il mare e fatto per le auto. Allora lo chiamarono Lungomare Viareggio, ma si trattò di tutt’altra cosa. Fino a non molto tempo fa le auto potevano parcheggiare a S. Spirito, ora non so, spero di no. Agrigento è fatta di servilismo accompagnato da un ribellismo individualistico malposto. Scarsissimo senso della comunità e ancora meno dei quartieri. In passato avevo fatto delle cose, anche molto partecipate. Ma chi se ne ricorda? Non vedo continuità in quasi niente. Molto dipendeva forse da chi come Santino lo Presti o come l’allora direttore del Museo Archeologico, Giuseppe Castellana, o come Vincenzo Campo, prendeva delle iniziative culturali. Ma poi…. Naturalmente qualcuno si chiese cosa c’era sotto, cosa ci si guadagnava ecc. Insomma le solite sciocchezze in una città scarsamente abituata, parafrasando Sciascia, a credere nelle idee.
Eppure erano iniziative molto partecipate e per me, agrigentino che tornava a casa, molto emozionanti. Mi capita di venire per singole iniziative sporadiche. So che vi sono state e vi sono iniziative culturali e civili. Ma poi non sembra esserci non dico crescita, ma almeno continuità. A volte penso che la città, che pure ha 2600 anni, abbia la memoria dell’acqua, inconsistente. Vive forse di ricordi ma non ha o non vuole avere memoria. E’ un vero e proprio paradosso.
 
 
Siamo dentro una fase di transizione, troppi ‘limiti’ violati: la barbarie che profetava Marx in alternativa al comunismo si sta manifestando anche nella forma della catastrofe ambientale, mentre il marxismo  sembra tornato nella soffitta dove lo aveva messo Croce un secolo fa.  Ci interroghiamo a Bacbac sul rapporto fra passato e futuro, su  cosa sia da considerare ‘passato’. Per esempio: è ‘passata’ questa forma di città? Ad Agrigento come altrove. E questa forma della mobilità, affidata principalmente al trasporto su gomma e privato. E tutto questo cinismo di cui si alimenta da secoli il rapporto fra Occidente e paesi poveri, non solo l’Africa da cui provengono la maggior parte dei migranti che riempiono le strade di Agrigento, del suo centro storico, e che sembra permanere come orizzonte dei governi e come senso comune. I ‘tolli’ sono da considerare ‘passato’? E i nostri centri storici che vanno in rovina? E la ferrovia che collega Porto Empedocle con Agrigento, potrebbe tornare ad essere il nostro futuro? Tu hai una antica passione per le ferrovie.
 
 
Ritorno al concetto di modernizzazione selvaggia.   Con il neoliberismo,  idee come bene comune, cosa pubblica, stato sociale, responsabilità sociale sono stati o stanno per essere smantellati in favore dell’appropriazione privata, dell’individualismo, dell’aziendalismo. Istituzioni come la sanità e la scuola imitano le aziende, mentre alla dichiarata fine delle ideologie e della storia, più o meno accettata da (quasi) tutte le forze politiche fa riscontro l’ideologia dell’essere imprenditori di se stessi come forme di apprendimento che in realtà è una caricatura del senso dell’autonomia intesa kantianamente come uscita dallo stato di minorità. Il coronavirus sta mettendo a nudo la fragilità di un’ideologia e di una pratica arrogante che sta facendo solo danni nel campo delle diseguaglianze che aumentano in modo esponenziale e in quello ambientale dove si annunciano catastrofi rispetto a cui non potremo tornare indietro. Un contesto così disastroso in cui ci troviamo diventa ancora più disastroso là dove, come Agrigento, non vi è stato neanche il passaggio che caratterizzò i tanto criticati anni ’60 e ’70 (anche se motivi per criticarli ovviamente ci sono) e che permise la riforma sanitaria, per esempio, o anche lo sviluppo delle infrastrutture come le ferrovie e le strade. Questo ancor più negli altri paesi europei, dove il neoliberismo si è potuto giovare di conquiste istituzionali e sociali ancora ben maggiori che nel nostro paese. Per capirci, se la sanità territoriale e sociale è stata indebolita in regioni come la Lombardia o il Veneto o la Toscana, almeno qualcosa è rimasto, mentre in una città come Agrigento quanti posti di terapia intensiva ci sono?
Sì, penso che una politica e ancora di più una cultura e perfino una ideologia della cosa pubblica, del bene comune, dello stato sociale (che è ben altra cosa dello stato assistenziale e clientelare) siano una conditio sine qua non per ricominciare. Al netto della mia mai sopita passione delle ferrovie, il ripristino delle ferrovie a cominciare dalla Porto Empedocle-Agrigento avrebbe un senso non solo turistico, ma culturale e anche pratico (nutro grande ammirazione per i coraggiosi animatori di Ferrovie Kaos), lo spostamento delle scuole e dell’università nel centro storico dovrebbe essere un obiettivo di rinascita della città o più esattamente di una città dove il centro storico sta morendo mentre i quartieri sono diventati satelliti indipendenti e isolati pur rimanendo comunque delle periferie. Forse si dovrebbe affrontare e discutere criticamente i concetti di periferia, di quartiere e di qualità della vita. Credo che dovremmo lottare per ottenere   la poesia della vita. Vale la pena lottare per meno? Vale la pena separare la lotta per la sopravvivenza da quella per la poesia della vita? E’ retorico? Preferisco cadere nella retorica piuttosto che in quello scetticismo pseudo furbo che porta all’immobilità e al servilismo ( munnu è e munnu a statu).
 
Nei primi di marzo ha fatto molto discutere un articolo di Agamben in cui diceva in sostanza che con il pretesto di questa pandemia gli Stati avrebbero potuto introdurre ulteriori dispositivi di controllo dei propri cittadini. Il tema, dopo le  recenti proteste di Napoli,  torna attuale e con nuove, preoccupanti implicazioni. Cosa pensi in proposito?
 
 
Penso che Agamben abbia pesantemente sottovalutato la pandemia, ma soprattutto che le sue riflessioni oggettivamente coincidano con la difesa neoliberista dello stato minimo. La cautela verso il pericolo di uno statoautoritario coercitivo è sacrosanta, ma non deve generare confusione. Agamben ha sottovalutato le capacità cooperative di autogoverno delle persone (che non hanno fatto notizia, ma sono state decisive nella difesa dal virus) e confuso l’idea di libertà il cui limite sta nel rispetto della libertà dell’altro con l’idea di libertà come insofferenza individualistica, tipica dell’antiautoritarismo liberal del neoliberismo.
 
 
Pirandello, Sciascia, prima ancora Empedocle. Ombre enormi su una città che preferisce forse sedersi accanto alla statua di Camilleri. Cosa  pensi della attività culturale ad Agrigento? Esiste in città un problema di spazi destinati alle attività culturali. Pubblici e privati. C’è quello spreco enorme di Parco Icori con un magnifico teatro e un cinema all’aperto. Anche a Pisa esiste un problema di teatri in difficoltà, l’associazione che gestiva il settecentesco teatro Rossi ‘getta la spugna’ titola il Tirreno. Qui chi fa teatro spesso deve provare a casa propria, non ci sono spazi pubblici. Palazzo Tomasi, l’ex ospedale a Porta di Ponte, il Museo Civico,  Palazzo dei Filippini sono chiusi o sottoutilizzati. Ogni tanto chi è rimasto si chiede cosa tu, Giovanni, Alfonso, i tanti ‘pisani’ che non vivete più ad Agrigento, fareste oggi abitando qui. E tutti quelli dopo di voi che sono andati via e sono rimasti a vivere in altre città. Oggi qualche trentenne ritorna, i ragazzi di ’Sbem’, ad esempio, che abbiamo incontrato. Sono  bravi e sono una speranza.

 
 
La crisi dei teatri è il segno della caduta culturale che sta coinvolgendo tutte le forme di apprendimento del sapere e della conoscenza. E’ vero che il Teatro Rossi chiude e mi dispiace molto (e spero che la partita non sia chiusa), tuttavia, vista dalla prospettiva toscana la cosa fa rabbia, ma vista dal di fuori bisogna dire che la Toscana ha, credo, 48 teatri funzionanti, in crisi, certo, ma ci sono. Vi è crisi, ma la si combatte. I teatri, anche quelli piccoli, vanno avanti e così pure le scuole di teatro (al netto naturalmente del virus). Ad Agrigento credo e temo che il problema sia più grave. Intanto vi è proprio quello dei palazzi chiusi e inutilizzati. Ma forse vi è anche la mancanza di un’attività diffusa nei quartieri. In una città come Agrigento, nonostante il teatro Pirandello con GaetanoAronica e il teatro della Vecchia Posta, nonostante la Biblioteca Comunale e la Biblioteca Pirandello, nonostante il Centro Pasolini, il centro non riesce a rappresentare, penso, la vita delle periferie. Inoltre quante librerie ci sono? Quante fanno attività culturale? Quali luoghi pubblici si possono utilizzare per attività culturali e teatrali? Più si è deboli territorialmente dal punto di vistaculturale, più si è esposti agli stereotipi dei social o della televisione. Cosa possiamo fare noi agrigentini che viviamo da anni fuori? Metterci al servizio di quelli delle generazioni più giovani che hanno voglia di cambiare, maanche di quelli della mia generazione che non hanno alcuna intenzione diarrendersi e che sono disponibili a riflettere non solo su ciò che abbiamo fattoma anche su ciò che non siamo riusciti a fare, da dentro e da fuori. Penso a te Tano, a Giovanni, a Pepi, a Vittorio, a Enzo, a Pino, a Peppe Pace, a Giovanni Moscato, a Lia, a Agostino, a Angelo, a Giovanna, a Peppe Vita con il suo Oceanomare, e a molti altri. Forse, se richiamati dalle generazioni più giovani, e al di là delle contingenze politiche, dovremmo superare le nostre idiosincrasie personali e unire le forze al servizio di chi ha voglia di prendersi cura (che significa anche, come è noto, preoccupazione) di questa città piuttosto malconcia.
Bisogna mettere le basi e questo si può fare ma in un tempo non breve. Temo che limitarsi alla contingenza della politica oggi non abbia alcun senso (questo non vuol dire esserne disinteressati). Bisogna sapere alzare lo sguardo per vedere, desiderare, sognare un futuro diverso dal presente, ma dopo esservi voltati e avere cercato alle spalle quel passato che deve essere ripristinato criticamente come memoria e che ci può aiutare a indirizzarci sul futuro. Sì, come l’ Angelus novus di Paul Klee evocato da Walter Benjamin, che ha appunto il futuro alle spalle.
Ma voglio dire un’altra cosa. Empedocle, Pirandello, Sciascia, Camilleri   (e ci metto anche Russello, per la giusta felicità del mio amico Gaspare Agnello). Cosa hanno a che fare con Monserrato, Fontanelle e Villaseta? Cosa hanno a che fare la Valle dei Templi, il Caos, la Noce, Marinella con la Agrigento di oggi? Quale città riconosciamo ne I vecchi e i giovani o ne Il re di Girgenti ? Temo che questi capolavori siano oggi una scusa per non vedere; non tanto delle ombre quanto dei simulacri. Penso che i giovani di oggi dovrebbero avere l’atteggiamento che i pittori impressionisti ebbero nei confronti di quelli accademici: guardare la natura en plein air, all’aria aperta, direttamente, non più tramite modelli culturali e accademici. All’inizio fu dura, ma non desistettero perché credevano alle loro idee e poi ci consegnarono un nuovo modo di vedere il mondo. Solo allora avrebbe senso ritrovare e riscoprire i nostri grandi. La mia generazione ci è andata vicina ma non ci è riuscita. I conti con Empedocle, Pirandello, Sciascia non li abbiamo saputi fare perché non siamo riusciti a fare i conti con la città che cambiò a partire dagli anni ’60. Ogni tanto vi è una manifestazione, un convegno, un incontro (sono stato da ultimo a un bel convegno organizzato dal  mio vecchio liceo con la sua attivissima preside Sermenghi); vi sono centri culturali e iniziative che stentatamente cercano di sopravvivere, ma certo non basta a educare a una coscienza culturale e civile di giovani i quali per andare a scuola o all’università devono arrangiarsi per arrivare e stare in quella di specie di non luogo che si trova sopra la Stazione Bassa. Il contrasto è evidente e stridente. Come puoi fare assimilare cultura quando ti abitui al peggio in fatto di qualità della vita? E, se non sbaglio, in questo la città è sempre tra le ultime, se non l’ultima.
 
 
Viviamo in un’epoca nella quale le notizie entrano in circolazione, si diffondono a macchia d’olio e scompaiono subito dopo. Da dove viene, a tuo avviso, questo appetito?
 
 
Nel tentativo di negare la storia e di imporre alle persone il presente per     il presente. Il nuovo che, come con le merci, si sostituisce al meno nuovo, produce un cambiamento debole, il cui effetto è conservatore e teso a esorcizzare i cambiamenti forti. Il vecchio detto secondo cui la carte del giornale di oggi servirà ad incartare la carne di domani, vale ancora di più per i social. Senza memoria, senza passato, non c’è futuro. Se non c’è  futuro, there is no alternative, come affermava Lady Thatcher! L’oblio della notizia di ieri oscurata da quelladi oggi è funzionale all’esistenza così come la subiamo oggi.
 

Di Bac Bac