di Vito Bianco

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

È passato giusto un anno dalla prima volta che l’ho vista. Non ho
scordato nulla, neppure un minimo dettaglio. Ero arrivato da meno di una
settimana in quella piccola cittadina dolomitica e ancora l’abitudine non
aveva dato il cambio al sentimento del nuovo, quel periodo eccitante ma
non lungo in cui un posto nuovo riserva continue scoperte e piacevoli,
imprevedibili smarrimenti.
Passeggiavo con il solo scopo di trovarmi davanti a una chiesa non
ancora visitata, e sperando nella fortuna di finire, inaspettatamente,
all’imbocco di un vicolo sconosciuto, o di una piazza mai prima vista,
quando i radi batuffoli di neve erano diventati fiocchi spessi e fitti e mi ero
visto costretto a trovare rifugio nel bar più vicino, il suo.
Se ne stava ferma dietro il bancone di legno rossiccio, con una tazzina
rossa tra il pollice e l’indice della mano sinistra e una sigaretta quasi del
tutto consumata tra medio e anulare dell’altra, come nessun fumatore di
solito fa, tranne certi ragazzi più originali quando, disposti in cerchio,
fumano, sorridendo e ammiccando, lunghe e odorose sigarette di
marijuana.
Mi ero tolto il berretto di lana e l’avevo infilato in una tasca del cappotto
sul quale resistevano tracce visibili di neve e umidità lasciata dai fiocchi
che si erano sciolti e avevo chiesto un caffè lungo guardandola, ma non
avevo incontrato i suoi occhi, puntati con impegno sulla superficie di finto
marmo del breve bancone che finiva con una leggera rientranza di una
tinta più scura.
Sembrava triste per qualcosa, o infastidita, o forse solo annoiata di stare
lì sola in attesa che un cliente entrasse per chiedere un liquore o un
cappuccino o un succo di frutta, oppure una qualsiasi altra cosa fosse in
vendita in quel tutt’altro che sfarzoso caffè di provincia.

Andò alla macchina dell’espresso senza ripetere l’ordinazione come
fanno tutti, immancabilmente, ovunque, nord o sud che sia, tanto da far
pensare che una costrizione all’eco, alla ripetizione sia l’inspiegabile
contrassegno di tutti i baristi della nazione.
Dopo aver ordinato mi girai dando le spalle al bancone, e sullo specchio
che mi ero trovato di fronte avevo visto il riflesso un po’ opaco della mia
faccia, della sciarpa di lana verde scuro, dei capelli bianchi che la
pressione del berretto aveva fatto aderire alla testa, salvo in un punto,
verso la nuca, dove invece un ciuffo puntava in alto, dandomi un’aria
sperduta e vagamente ridicola. Cercai di riassestarlo con la mano
ripetutamente ma con scarso successo.
Dopo due o tre tentativi lasciai perdere, e per un momento fui sul punto
di rimettere il berretto, ma il locale era ben riscaldato e già dopo pochi
minuti dall’ingresso avevo sentito il bisogno di togliermi il cappotto.
Lo feci in quel momento, osservando allo specchio l’operazione e
sorridendomi come se stessi facendo qualcosa di sbagliato che non avrei
dovuto fare. Tornai a dare le spalle allo specchio proprio mentre la donna
poggiava la tazzina sul piattino avendo cura che il manico fosse dalla mia
parte.
Ringraziai, presi una bustina di zucchero da un contenitore lì accanto e,
tenendo in equilibrio piattino, cucchiaino e tazzina, mi sedetti a un tavolo
a metà della parete, dando le spalle al televisore sintonizzato su un canale
musicale. In tre sorsi mandai giù il caffè, caldo e di buon sapore, stesi le
gambe e mi recitai l’inizio di una poesia che parla di un’alba in un bar,
d’amore e di guerra.
Avevo appena socchiuso gli occhi per un’onda di sopore o stanchezza che
fosse, quando sentii un contatto sulla nuca, lieve e intervallato da pause
brevi di uguale durata. Alzai la mano per portarla sul punto in cui sentivo
lo strano contatto, ma una voce mi disse di stare tranquillo, che stava solo
rimettendo a posto il ciuffo ribelle che poco prima non ero riuscito a
domare.
La lasciai fare senza dire niente, temendo di offenderla o incrinare
l’incanto di quel gesto imprevedibile che nessuna parola o segno avevano
in alcun modo preparato.
Rimasi fermo, con le mani in grembo, come se quella incongrua pettinata
fosse del tutto in accordo con il luogo in cui ci trovavamo e lei non fosse
una barista sconsolata o triste ma un barbiere sapiente che in silenzio
allinea i capelli di un cliente prima di tagliarli – sicuro, veloce, preciso.

Di Bac Bac