di Nuccio Dispenza

“Questo nostro tempo non ha certo bisogno di profeti di rancore, di seminatori di livore e di odio”. Luigi Mazzocchio oggi è il cappellano del carcere Petrusa di Agrigento. Oggi come in tutti gli anni che lo hanno visto nelle periferie, sia quella romana sia quella del mondo, in Tanzania, è sempre stato, e resta, un missionario. La parola e la testimonianza di Dio lì dove tutto è più difficile. E tanta umanità.
Luigi lo conobbi da ragazzo, eravamo vicini di casa, lui coetaneo di mio fratello. Quindi, Luigi. Lo incontriamo quando si è già fatta sera, al porticciolo di San Leone, alla fine di una sua dura giornata tra i carcerati, che in lui il più delle volte individuano l’interlocutore unico per tutto. Luigi mette mille pezze ad un sistema che lo Stato non sa ben disegnare, che poco interessa all’opinione pubblica. Un pò di vento settembrino dal mare, ci consiglia di spostarci attorno al tavolino di un bar chiuso. Primo tema, la cattiveria, protagonista assoluta del nostro tempo. “Una cattiveria spacciata per giustizia…”, precisa Luigi Mazzocchio. Parliamo dei cristiani, di quelli che ascoltano le sue parole, eco di quelle “scomode” ripetute da Papa Francesco. “Si, quelli che poi insistono sul fatto che i migranti se ne debbano stare a casa loro, quando sono con me, e con me parlano, di questa loro posizione hanno pudore…Capiscono che non è da buoni cristiani…”. Il Papa, questo Papa che ha smontato tante certezze al’interno del sistema di potere della Chiesa. “Tanti nemici, ma tanti di noi ad essergli grati…”, dice Luigi. Lo scarto, tema dominante del papato di Francesco, sempre pronto a denunciare un mondo e una società che tendono a scartare, appunto, i più deboli, i diversi, gli emarginati, gli anziani. E la missione di Luigi, nelle borgate romane, in Africa come qui ad Agrigento, la sua Agrigento, dietro le sbarre, è sempre stata al fianco degli scarti, per dire loro che la Resurrezione è possibile. Quattro anni nella parrocchia di Ponte Mammolo, a Roma, uno dei quei luoghi con palazzoni disumani che finiscono col divenire contenitori di deportati da borgate che avevano un’anima. Accanto a loro, altre donne e uomini e bambini, venuti dopo. Sul cratere di questa marginalità, un’altra marginalità, quella di un campo rom. E Luigi ripercorre la vicenda di quel Natale che lo vide protagonista, suo malgrado, di una cronaca letta in maniera fuorviante. Fu additato  da qualcuno come chi aveva sovvertito la tradizione del presepe. Tutto per uno striscione al posto del Bambin Gesù.” Perché cercare tra i morti colui che è vivo?”. Furono queste le parole messe al posto del bambinello. Qualcuno non glielo perdonò, sbagliò la stampa locale. Lui era con chi viveva ai margini e ai margini continuò la sua missione, anche con quei rom “scomodi”ai quali era andato incontro. Prese contatti con l’amministrazione della Capitale, trovò orecchie che lo ascoltassero, si intraprese una buona strada per sistemare la zona, per dare dignità a tutti, rom e non. A Ponte Mammolo e in altre periferie di Roma – gli racconto – poco è cambiato, lo suggerisce la cronaca che scrive di nuove e più profonde divisioni, fino al razzismo. Ultimi contro ultimi, con la cattiveria che fa da carbonella in una brace in cui soffiano in tanti. L’accoglienza è difficile, distante l’invito di quel vescovo latinoamericano – mi ricorda Luigi – che implora “Accoglietevi, gli uni, gli altri”. In quella parte del mondo c’è una umanità in fila che punta al Nord, che lungo il difficile cammino trova sbarramenti di polizia e soldati, e poi ostacoli in ferro che feriscono e scoraggiano, quindi alti muri. Questo è il mondo oggi, vita difficile per gli ultimi, gli scarti e le periferie, tutte le periferie…

Dopo Roma, l’Africa, realtà immensa, costantemente nel pensiero e nelle parole di Francesco. Cinque gli anni che don Luigi ha passato in Tanzania, anni duri, con la malaria che ha fiaccato il suo fisico, che mise a dura prova la sua resistenza. Paese povero, ora scosso da una caccia all’oro alla quale partecipano anche i diseredati. Dopo l’Africa, Agrigento, cappellano.
Tanti di quelli che stanno in carcere sono immigrati e profughi. Profughi come l’ingegnere siriano condannato in primo grado a tre anni perché accusato d’essere stato uno scafista. Lui si è difeso, in quel barcone ero il solo che sapeva di come navigare, il solo capace di trovare la rotta, mi hanno messo al timone. Niente, non è stato creduto ( altri scafisti lo sono stati davvero, magari per un viaggio senza pesanti oneri ), è rimasto in carcere in attesa dell’appello. Ora lavora, la pena così è meno pesante.

Vorrebbero lavorare tutti, o quasi, ma non ci sono laboratori. “La scuola? Si, quella certo che c’è, abbiamo pure il corso dell’Alberghiero, ma è difficile…Come diventare chef se hai a disposizione solo il fornellino da campo?”.
Niente laboratori artigiani, niente corsi di teatro. Quelli ci sono negli istituti modello, Bollate, Padova, anche Siracusa. Molto dipende da chi dirige il carcere, ci dice don Luigi, se il responsabile è motivato, sente l’impegno, allora si possono costruire condizioni favorevoli al recupero, altrimenti resta solo la pena da scontare, le mura, le porte chiuse, i circuiti video interni, la gestione secca e cruda della detenzione.
Tanti i casi di autolesionismo. Spesso lo fanno solo per ricevere un pò di attenzione. “Di recente è stato un tunisino a provarci…Ed io a parlargli del volere di Dio, del torto che faremmo a Dio…”. Difficile, molto difficile esserci e rispondere alla montagna di problemi che si riversano su un cappellano.
Come fuori, anche in carcere – nota Luigi – quel che manca è una seria programmazione. Fuori e dentro, si va per emergenze, si mette una pezza in attesa della prossima. Racconta di quando, in pieno inverno, si è rotta la caldaia. Acqua fredda per tre settimane. Racconta di come diventi difficile pure pregare: ad una ragazza è stato negato di piegarsi a pregare perchè non poteva nascondere la bocca sul pavimento, si doveva leggere ogni sua sillaba. Eppure il carcere ha anche diritti, tra questi quello alla redenzione. Redenzione, parola che fa sgranare gli occhi a don Luigi. Quelli di fuori siamo distanti mille volte, la misura va oltre la reale distanza che c’è tra noi e il carcere. Hanno sbagliato, paghino.
Luigi ci dice della tanta cattiveria di questi nostri tempi spacciata per giustizia. Non ci importa in quali condizioni, paghino. Fuori ci occupiamo di coltivare la nostra cattiveria. 
“Ci sono gli psicologi – dice Luigi – ma in carcere mancano i mediatori culturali…Stentiamo a capire e a farci capire…Le lingue… I dialetti…Tutto diventa meleddatamente difficile…”. La sofferenza, moltiplicata, è esplosiva.
Gli aiuti arrivano da Caritas e Evangelici, portano quel di cui si ha bisogno, soprattutto ascoltano. Ed è tanto. A don Luigi parliamo dei nostri incontri a Villaseta, dei ragazzi che lì abbiamo incontrato.
“Si, dentro ne ho conosciuti di Villaseta…Ora c’è pure un ragazzo catanese, di Librino…”. Periferie, storie fotocopia, stessi margini di cadere irrimediabilmente, a Librino come a Villaseta. E pensando a qualcuno di loro, don Luigi, sfidando quella cattiveria vestita di giustizi di cui ci ha parlato, di loro ci dice “Pezzi di pane”. Ci lasciamo con don Luigi, lui col peso di una giornata a Petrusa.
Ci lasciamo con la promessa di continuare a parlare di periferie e delle difficili e sconnesse strade che lì si è costretti a percorrere.

(foto di Tano Siracusa)

Di Bac Bac