di Tano Siracusa

La luce schermata, rossastra o gialla, il ronzio di un motore, l’odore penetrante degli acidi mentre nella vaschetta del rivelatore cominciavano a brulicare le chiazze scure, i neri, poi le varie tonalità dei grigi e poi il bianco, i bianchi più o meno sporchi, fino a ricomporre l’immagine scomparsa.
Quel ritorno dal passato era sempre un prodigio, e tanto più sorprendente quanto maggiore era il tempo trascorso fra lo scatto e la stampa. A volte erano passate poche ore, a volte settimane, a volte un paio di mesi se il viaggio era stato particolarmente lungo.

La camera oscura e il suo perturbante incanto sono stati cancellati dall’avvento del digitale.

Con le nuove camere digitali è stato possibile vedere la fotografia un istante dopo lo scatto, quasi come in un riflesso speculare. Ma agli specchi, ai riflessi, siamo abituati da sempre; al ritorno di ciò che si è visto in un passato più o meno lontano probabilmente non ci abitueremo mai. Guarderemo sempre quelle immagini con il sospetto di un paradosso, di una impossibilità e, forse, di una trasgressione. Soprattutto se si tratta di immagini di familiari o di amici allontanatisi nel tempo. Immagini di un vissuto personale trattenuto dai ricordi, spesso raccolti attorno a quelle foto.

Nel mondo smaterializzato e asettico del digitale non pare esistano varchi per inoltrarsi in quel passato vissuto e fotografato da decenni, sfocato nella memoria, o del tutto dimenticato.

Eppure proprio la tecnologia digitale, un piccolo scanner, Photoschop, e altri sostituti dei vecchi apparati, mi ha permesso di visualizzare per la prima volta scatti di trenta e quaranta anni fa.

Ed è un’esperienza nuova, solo imparentata con le resurrezioni delle immagini in camera oscura. Un’esperienza molto legata al disordine che da sempre non riesco ad arginare, e alle mie cattive abitudini in quel luogo irregolare, che sembrava sospendere le coordinate spaziotemporali.

Non facevo i provini a contatto, uno spreco: guardavo ad uno ad uno i fotogrammi nell’ingranditore e dalla decifrazione del negativo valutavo se meritava un provino su una piccola stampa. La stanchezza, la scarsa lucidità, non consentivano di intercettare scatti che avrebbero invece meritato attenzione. Sviste e spreco. Migliaia di provini, di stampe su formati piccoli buttate via per motivi di spazio. Anche molte 18×24.

Adesso visualizzo sullo schermo fotografie scattate decenni fa che non avevo mai visto. Visioni istantanee monoculari di un passato lontano, attorno alle quali dopo tanto tempo non c’è più lo sciame di ricordi che di solito accompagna le fotografie recenti.

Immagini senza prima né dopo. A volte senza neppure il dove e il quando, perchè nel corso degli anni le strisce di negativi si sono rimescolate nei contenitori: strisce di foto scattate in Sicilia nel 2008 accanto a sequenze di dieci anni prima in Cile o di scatti marocchini degli anni ’80 e ’90.

A volte perciò quelle foto viste per la prima volta, quegli attimi di un passato dimenticato, non permettono di riconoscere i luoghi, né le date. Adesso appaiono immagini in cui riconosco solo il mio sguardo, ma potrebbero essere state scattate in Bosnia, in Turchia, in Guatemala, in Sicilia, sulle Madonie, a Matera, ad Antsirabe, a Tangeri, a Budapest. In anni lontani fra loro, che vanno dall’ ’83 al 2010.

Manca la connessione della memoria, ciò che forse più di ogni altro meccanismo permette di ‘riconoscersi’ nel tempo, nel suo passare.

Di queste immagini, che potrebbe avere catturato chiunque, sono particolarmente curioso proprio perchè intuisco che quel buio che le circonda, illuminanato per un istante, fa comunque parte del mio presente, lo costituisce, fa parte del mio sottosuolo. Tutto quel buio, quell’inconsapevolezza, che sembrano anche loro uno spreco, ma che intuiamo inevitabili.


Qui ne scelgo due, senza cercare tanto.

Non so dove e quando siano state scattate. Sono posti qualunque. Non sono fra le mie foto che preferisco ma riconosco l’inquadratura, la scelta dell’attimo, mi appartengono. Come appartengono, certe predilizioni visive, a tanti altri fotografi.

Di Bac Bac