in tanti punti della settimana 

diDaniele Moretto 

 

·     Tempo sospeso. Da settimane è la stessa settimana. Giorno confuso di giorni. Il sangue della Terra gronda nello spazio. Le stelle (la speranza) non sono più pori ma fori nella pelle dell’universo. Il colabrodo cui è ridotto. Apocalisse non sarà. È già. Senza lacrime. Stop al genocidio. Stop. Ai genocidi. Fermarsi. Impossibile. Mentre tutto è fermo. Sospeso. Sentire. Dissentire. Cessate il fuoco! Ma cosa dà intensità più della guerra? Cos’è che placa l’odio più di un nemico? A Gaza si perde la vita. Ad occhi chiusi. Ad occhi aperti.

 

·  Barbara Balzerani, il ricordo. Alla notizia, il medesimo pensiero: tutti. Moriamo tutti. Poi il ricordo dell’incontro casuale. Feltrinelli Palermo. Leggerò dopo Lettera a mio padre. Testo intenso, commuovente. In libreria non parla tanto del libro. Né dei venticinque anni in carcere. Insiste. È come la terrorista interpretata da Susan Sarandon nel film “La regola del silenzio” di Robert Redford: “Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione”. Tra cocciutaggine e coerenza. Di certo non va tra gli ignavi. Ne ha molti anche il nostro tempo. Anche tra questi che durante il dibattito provano a mostrarsi rivoluzionari. Prendo la parola perché sia chiaro: il popolo italiano non aderì affatto alla lotta armata. Si potevano accettare le analisi socio-politiche dei comunicati, ma non la soluzione armata, delle BR. Per non parlare delle esperienze nonviolente, tutta una tradizione ben consolidata (in Italia Capitini, Dolci e altri). Esperienze di lotta. Di dissenso. Ma portatrici di vita. Da lei e dai suoi compagni ignorate. Peccato. L’acume sfibrato in dissennatezza. E dunque, la stretta di mano? Alla creatura. Ché abbiamo, tutti, in comune il corpo e la morte. E la scelta di un destino per l’anima. Sulla sua lapide potrebbe esserci scritto: “Non si voltò mai indietro, fu il suo bene e il suo male”. Per la Storia, un altro capitolo del dissenso.

•  “Navalny”. Molto ben fatto il documentario di Daniel Roher. Vincitore dell’Oscar 2023. A inizio riprese il regista chiede a Navalny: “Cosa succederà se tu muori?”. Aleksej ride per celare il disappunto: “Ma dài, Daniel, già pensi alla mia morte!”. Senso del mestiere. O di realtà. Quale realtà? Navalny gioca una partita disperata. Fuori e dentro il suo paese. Non è più politica e non è utopia. Il suo carnefice lo aspetta. Col sorriso beffardo. Al varco della dogana. Navalny prova a uscire dal meccanismo vittimario. Incastra gli esecutori del suo avvelenamento. Indica chiaramente in Putin il mandante. Che non pronuncia mai il suo nome. Lo teme e lo rende anonimo. Gli permette di curarsi in Germania. Spera non torni più. Fa bene Navalny a tornare in patria? Roher intuisce, sa. Come sa chi guarda dalla distanza. Da dietro l’obiettivo. Gli sta addosso con la videocamera. Le immagini scorrono con una terribile tensione. Navalny si confida con un collaboratore, poco prima di rientrare in Russia. La sua cella. “Continuamente prefigura la mia morte”. The show must go on, until the end!

Lievi volano le settimane,

quel che è stato non capisco.

Come ti guardavano, figlio,

le notti bianche, in carcere,

com’esse di nuovo guardano

con occhio ardente di sparviero,

e della tua alta croce

e della morte parlano.

Anna Achmatova, da “Requiem”, 1939

Dedichiamo questi versi a Lyudmila Navalnaya

madre di Aleksej Naval’nyj.

Febbraio 2024 
“Il punto” n. 18
Rubrica diDaniele Moretto 
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Di Bac Bac