di Vito Bianco
Past lives, vite trascorse: è il titolo di un un’emozionante pellicola coreana, esordio alla regia della trentaseienne Celine Song, drammaturga e sceneggiatrice, protagonisti due attori sconosciuti e perfetti, Greta Lee (Na young e Teo Yoo (Hae sung) più John Magaro a chiudere il triangolo delle tre vite in gioco; così come sconosciuta era da noi la neoregista che con sicura padronanza del mezzo sceneggia una storia autobiografica non so quanto variandola per sacrosante esigenze drammaturgiche. Il film della Song sta facendo incassi da record, ed è una gran bella notizia per il cinema in generale e per quello di qualità in particolare, il cinema che una volta si diceva d’autore (a metà degli anni Cinquanta dalle pagine dei Cahiers il giovane François Truffaut lanciò una campagna critica per sostenere quella che chiamava la ‘politique des auteurs’) e forse non sarebbe male continuare a chiamarlo così, per distinguerlo da quello con finalità scopertamente commerciali, contro il quale non avremmo nulla se troppo spesso non impedisse la sana circolazione dell’altro, quello che ci sta a cuore e che da sempre fa la grandezza di questa imprescindibile forma d’arte, ‘occhio del Novecento’ (F. Casetti).
È il terzo film ‘orientale’ che mi capita di vedere nell’arco di un tre settimane, dopo l’acclamato Perfect days di Wim Wenders (vedi arricolo in questo sito) e Viaggio in Giappone della francese Élise Girard, con Isabelle Huppert scrittrice in lutto che in quel paese ai suoi occhi tanto strano ricomincia a vivere grazie all’incontro con una persona speciale che è anche il suo editore giapponese. In comune le tre opere hanno…la lentezza, mi viene subito da dire. Meglio: il piacere della lentezza. Ma mi chiedo: è la lentezza orientale che ancora da quelle parti sopravvive, malgrado il passo veloce importato dall’Occidente efficiente e veloce, o si tratta oramai di una sorta di stilizzazione nostalgica, di una illustrazione per così dire artistica, cinematografica?
Non ho una risposta sicura; noi comunque tendiamo a considerarla autentica e la usiamo come specchio per vagheggiare un mondo perduto e sognare o progettare una vita diversa all’insegna di una modestia e di una calma che non saremo mai capaci di raggiungere (o forse qualcuno sì, si sono viste e ammirate conversioni che sembravano impossibili).
Di che parla Past lives? Parla di destino. Di una cosa misteriosa definita da un termine del buddismo – In Yun – che designa l’affinità elettiva tra due persone destinate a incontrarsi e amarsi. E del rimpianto, talvolta bruciante, con cui può accadere di dover convivere, per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
I due protagonisti hanno dodici anni e a Seoul frequentano la stessa classe e sono inseparabili. Succede però che i genitori di Na young – il padre cineasta, la madre pittrice – decidono di lasciare la Corea per il Canada e i ragazzi che già avvertono il legame di un sentimento speciale, si perdono di vista. Si ritrovano grazie alla rete dodici anni dopo, ma si riperdono perché lei, che vive a New York, capisce che quella relazione virtuale le imbriglia la vita. Ancora una cesura di una dozzina d’anni. Lei si è sposata con uno scrittore conosciuto in una residenza per artisti e abita sempre a New York; Hae sung si è laureato in ingegneria e ha un fidanzamento sospeso sulla soglia del matrimonio.
In questa sospensione parte e va a trovarla nella città dove è riuscita a realizzare buona parte delle sue giovanili ambizioni. Si incontrano, vanno in giro, parlano, si guardano come se cercassero di ritrovare sotto i volti maturi di ora quelli imberbi del tempo passato.
Lui, capiremo, partendo aveva sperato, senza dirselo, di riaverla. Ma la ritrova guardinga a misurare, pur nella dolcezza quasi materna dello sguardo con cui scruta il suo amore di una vita fa, la distanza incolmabile tra quella che era e quella che è adesso, con un altro nome: non resta che separarsi. Alla fine di una cena a tre voluta dall’americano per conoscere l’altro uomo della donna che ha sposato, Na Young accompagna l’amico alla fermata del taxi, dove, fermi in attesa e senza più parole da dirsi, si guardano muti come per fotografare ogni dettaglio del volto dell’altro: sono ancora insieme ma già irreparabilmente lontani. Il taxi riparte e la donna torna lentamente verso casa; sulle scale esterne ad aspettarla c’è il marito, paziente e generoso spettatore di un confronto dall’esito imprevedibile.
L’ultima inquadratura è sul volto sconsolato di Hae seo, al quale il viaggio ha insegnato che nessuno può mutare gli inappellabili disegni del destino.