di Giandomenico Vivacqua

Ancor più che per la draconiana condanna, la sentenza del Tribunale di Locri, adesso profondamente riformata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, appariva abnorme per ciò che i giudici avevano dovuto presupporre per infliggerla, ossia che a muovere Mimmo Lucano non fosse stata una sincera e magari romantica premura per l’umanità negletta, il “sogno proletario” come lo chiama lui, ma solo la ricerca del consenso politico. Avendo appurato che non un solo euro del danaro pubblico amministrato dal sindaco di Riace era finito nelle sue tasche vuote, avevano dovuto attribuirgli, per ritenere penalmente offensive le sue condotte, un diverso interesse egoistico: la brama di potere.

Ora, poiché è stato dimostrato che Lucano, quando ancora alto brillava il suo astro, si era sottratto a comode e remunerate carriere parlamentari, a Roma e a Bruxelles, che pure gli erano state offerte, i giudici di Locri si erano spinti a cercare la smania di potere fin dentro il foro interno del vecchio militante di Lotta Continua, nel fondo della sua coscienza, dove avevano creduto di percepire una sorta di esaltazione, la fanciullesca eccitazione di chi è abituato a perdere tutte le battaglie e finalmente pare vincerne una, e per questo l’avevano duramente castigato.

Per la sua struggente e disordinata utopia, in effetti, Lucano aveva guadagnato, insieme all’ostilità rabbiosa di alcuni potenti, anche il consenso – l’attenzione, il rispetto, l’amicizia – di molte persone, in diverse parti del mondo, e certo se ne sarà umanamente compiaciuto. Per i giudici del primo grado questo era il suo vero scopo, mentre l’accoglienza dei migranti e la rigenerazione di una comunità derelitta erano solo l’espediente con cui il sindaco alimentava la propria vanità e il bisogno di personale affermazione (ubriaco di sé e bandito idealista lo aveva definito il procuratore).

Possono i giudici di un tribunale repubblicano spingersi fino a queste profondità dell’animo umano per recuperare gli elementi necessari a ricostruire lo schema tipico di un delitto, senza con ciò trasformarsi in una anacronistica sezione dell’Inquisizione Spagnola, in uno di quei “tribunali della coscienza” di cui ha scritto Adriano Prosperi in un bel saggio di un po’ di anni fa? No, non possono, e la sentenza della Corte di Appello, mentre restituisce a Mimmo Lucano il suo statuto poetico e politico, affermando che egli non era il capo di un’associazione a delinquere, ripristina, al contempo, i cardini, cigolanti quanto si vuole, della nostra civiltà giuridica.

Di Bac Bac