di Tano Siracusa

In un caffè ad Agrigento. Dice un signore ad un amico: ‘Bisognerebbe che qualcuno, in grado di interloquire con lui, gli parlasse, gli spiegasse…’
E tuttavia si capisce che spiegare all’interessato come la denominazione ‘Utriana’ possa apparire inopportuna non è facile. Sarebbe imbarazzante per chiunque ed è improbabile che accada. L’intervista rilasciata da Marcello Dell’Utri a Felice Cavallaro sul ‘Corriere della Sera’ non offre varchi o spiragli a futuri ripensamenti. Al contrario, sembra un annuncio meditato che aggira le verità giudiziarie e giornalistiche che lo riguardano attribuendole ai ‘seminatori di odio’.
Esistono le interpretazioni, non i fatti, scriveva il filosofo; e più di un secolo dopo ci muoviamo in un mondo di ombre, di immagini e parole che non sono più gli ormai mitologici ’fatti’, ma appunto le loro interpretazioni.
Gli attentati ai magazzini Standa di Berlusconi, l’arrivo ad Arcore come stalliere di Mangano, la mediazione dell’amico Dell’Utri, la sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, i versamenti in danaro del Cavaliere, notoriamente generoso, al vecchio amico accusato e condannato, e via inoltrandosi negli anni e nella storia di questo paese: tutto da interpretare.
Spariscono i fatti e con le interpretazioni si moltiplicano le verità. Verità giornalistiche (che potrebbe apparire un ossimoro) e verità giudiziarie anche, che certo non sono la Verità; può capitare infatti che vengano smentite dalle verità storiche, a loro volta spesso revocate, trasformate, ribaltate col passare del tempo. Cronaca e storia si passano il testimone, ma la direzione del percorso può intanto essere cambiata.

Uomini politici di primissimo piano, a lungo ai vertici delle istituzioni, celebrati in vita benchè accusati di avere offerto sponde a Cosa Nostra, sono stati descritti e verranno probabilmente raccontati dagli storici come immersi in molte fra le zone più oscure, forse non a caso inenarrate, delle vicende nazionali. E in modo particolare – almeno dallo sbarco alleato del ’43 ad oggi – di quelle siciliane. La presenza della mafia, il suo intreccio con ampi settori delle classi dominanti, del ceto politico e del mondo imprenditoriale, la sua capacità di permeare il tessuto istituzionale fino ai suoi vertici più alti e di influenzare lo stile di vita di vaste aree sociali, ha reso opachi i confini, la linea di demarcazione con il mondo ‘in grigio’ che le è stato e le rimane contiguo, sulla cui permeabilità ha costruito grande parte del suo potere economico.

E tuttavia ancorarsi a quelle verità che pure sappiamo provvisorie, anche per negarle, è l’unico modo per orientarsi nel tempo che si vive. Anche perché fra le nebbie delle tante ‘interpretazioni’ ci si orienta anche attraverso una assunzione valoriale, che si alimenta delle cronache e le precede, e cioè che la mafia sia il Male, una delle sue tante espressioni storiche. Un migliaio di morti nella guerra fra palermitani e coleonesi in un decennio, centinaia di vittime innocenti, giornalisti, poliziotti, carabinieri, politici, sindacalisti, magistrati, uomni delle scorte, passanti; e poi le stragi, fino all’ultima, fallita, allo stadio Olimpico a Roma. E pentiti, veri e falsi, depistaggi, ricattatori in tv, magistrati contro, ombre nere sul’isola e nella trasmissione di Giletti su La 7 che viene soppressa. Una opzione valoriale, quella antimafiosa, non ovvia. Non generalmente condivisa se si considera il perdurante potere delle cosche, la ramificazione ed estensione dei loro affari illeciti, la loro infiltrazione nei grandi circuiti economici e finanziari.
Bisogna dunque confrontarsi con le verità disponibili. E le verità giudiziarie su Dell’Utri sono una condanna a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa e un’indagine in corso sulle stragi del ’93 da parte dei magistrati fiorentini, che pochi giorni fa hanno ordinato una perquisizione a casa sua.

Tanto dovrebbe bastare per ritenere ‘inopportuna’ ( non accettabile dal destinatario) la pretesa di Delll’Utri di intitolare a se stesso la biblioteca preziosa (e discussa per le modalità di raccolta di alcuni volumi), con annessa scuola di restauro dei libri antichi, che intende donare alla città Agrigento, capitale della cultura 2025. Un grande regalo pensato assieme all’amico Berlusconi.

Donazione irricevibile con quella intestazione dicono in tanti, ma chi lo dice a Dell’Utri? Difficile pensare che possa essere il destinatario del regalo, il Comune di Agrigento.
Che d’altra parte non è solo il Comune o l’Ente Parco, ma una città di quasi 60 mila abitanti messi fuori gioco da un circuito decisionale pressoché inaccessibile. Sui social i commenti più aspri, amari, ironici. Ma anche qualche plauso e molto silenzio, soprattutto silenzio, che è spesso un riflesso dell’indifferenza o dell’ imbarazzo.

Fin qui, sommariamente, le cronache. Gli storici poi proveranno a diradare il gioco di nere ombre che si agitano sull’isola, scriveranno le loro verità, le loro storie.

Nessuno può cambiare il suo passato ma è responsabile del suo futuro. E anche per questo nessuno dovrebbe lanciare pietre contro nessuno. Oggi Marcello Dell’Utri è un uomo libero, ha scontato la pena per la condanna subita, ha pagato ciò che doveva allo Stato. Può continuare a coltivare le sua nobile passione per i libri, può regalarli, continuare a comprarne, scriverne lui: potrebbe raccontare la sua storia, la sua verità, un’autobiografia. Tutto questo si può capire e auspicare. Molto meno comprensibile e auspicabile per alcuni è voler associare oggi Agrigento al suo nome, ad una immagine autocelebrativa di generoso bibliofilo. Tentativo, questo di Dell’Utri, anche umanamente comprensibile, ma la sua immagine pubblica non si riassume in quel tratto. Rimane nascosta in quel particolare, coperta in una sua sfaccettaura. Qualcuno dovrebbe provare a dirglielo: la Biblioteca Utriana? No, grazie.

Di Bac Bac