di Vittorio Alessandro

Se, con i soldi ricevuti in eredità, Marcello Dell’Utri decidesse di acquistare ad Agrigento una villa, la chiameremmo tutti “Villa Dell’Utri”. Se rilevasse un esercizio commerciale, ne verrebbero, ineluttabilmente, un ”hotel Dell’Utri” o un “panificio Dell’Utri”.

Ha invece deciso di donare ad Agrigento una biblioteca di libri di letteratura siciliana che, nel cuore della Valle dei Templi – ha anticipato al Corriere della Sera – dovrebbe attivare “un laboratorio di restauro del libro e della carta, oltre a un master in biblioteca e un master in economia legato a editoria e libri”. L’iniziativa verrebbe ad arricchire il patrimonio culturale della città e l’offerta di studio e lavoro qualificati: certo un buon motivo perché si stemperi ogni pregiudiziale irrigidimento.

Prima o poi, l’alone di controversie intorno al nome di Dell’Utri si spegnerà, lasciando posto alla sua collezione di libri, in futuro molto più utili dell’incerto arnese su cui mi ostino a scrivere questa nota. All’inaugurazione il sindaco e le alte autorità avvertiranno (forse) qualche imbarazzo, ma andrà via anche questo come l’acqua, in una città in cui ogni giorno qualcuno celebra qualcosa e tutti continuiamo a scambiarci targhe più che alla Motorizzazione.

Lascia, se mai, perplesso l’aggettivo “utriana“ che il donatore vorrebbe conferire alla biblioteca: di cattivo gusto come i rubinetti d’oro zecchino in casa di certi arrampicatori. «Che male c’è? Ad Agrigento hanno la “Lucchesiana”…», ha argomentato candidamente l’ex senatore, ma Lucchesi Palli fu vescovo, e di antica origine aristocratica.

Per dire, se possedessi le sostanze di Dell’Utri e i suoi stessi intendimenti, non mi permetterei di battezzare la mia raccolta “alessandrina”: oltre a quella sontuosa in Egitto, c’è già la Biblioteca Alessandrina voluta a Roma da Papa Alessandro VII.

Di Bac Bac