di Tano Siracusa

Quella notte il cielo si aprì e l’acqua esondò dai fiumi e dai torrenti, allagò la valle che alle prime luci del giorno sembrava fosse stata invasa dal mare, scintillante e ancora in tumulto all’ orizzonte.
Due giorni dopo in paese le automobili poggiavano ancora le loro carcasse sui tetti sfondati delle abitazioni: pianiterra allagati, acqua e fango. E a Marinella, sulla spiaggia che dal Porto raggiunge la marna bianca della Scala dei Turchi, un enorme tronco di eucaliptus era disteso nella risacca, non lontano da un piccolo torrente le cui acque erano straripate. Lungo una quindicina di metri, visto da lontano sembrava una mostruosa creatura preistorica.
Qualcuno riuscì a trascinarlo sulla sabbia asciutta di uno degli arenili più belli della costa sudoccidentale siciliana. Su quella sabbia dorata e sottilissima il gigantesco tronco è rimasto per mezzo secolo. Ogni tanto qualche bagnante lo raggiungeva incuriosito, attratto dalla sua dismisura. Ci girava attorno, lo toccava, lo fotografava. Una notte qualcuno aveva cercato di dargli fuoco, ma ormai il tronco aveva una specie di custode che dormiva lì vicino e che aveva subito spento le fiamme.


La scorsa estate un uomo ha cominciato a scolpirlo. Un piccolo uomo con un cappello di paglia, camicia e pantaloni al vento; visto dal bar a cento metri di distanza, faceva pensare a Van Gogh ad Arles, per l’abbigliamento e per la luce accecante, per quella sua ostinazione, una specie di determinazione febbrile. Voleva scolpire un Crocifisso. Ne aveva uno tatuato sul petto, e un altro appeso al collo.

Molti si avvicinavano e lui parlava con tutti, smetteva di lavorare e spiegava, raccontava, si raccontava: di quando a Berlino aveva cominciato a scolpire per strada un crocifisso e la polizia aveva minacciato di arrestarlo, di quando come San Paolo era stato travolto da una visione; raccontava dei crocifissi che da allora aveva scolpito in giro per il mondo presso le sorgenti d’acqua, dei Santuari che aveva visitato, delle più alte sculture di crocifisso finora create; e del legno che era troppo duro, non era buono per essere scolpito, ma era quello che gli avevano indicato alla Capitaneria di Porto quando aveva chiesto se c’era un tronco d’albero per farne un Cristo in croce.
Spiegava che avrebbe portato la scultura nella parte alta del paese, e l’avrebbe fatta issare. Sarebbe stato un crocifisso altissimo, ma non ancora il più alto del mondo. Di fronte al mare. Spiegava che le braccia sarebbero state sollevate, lo spessore massimo del tronco non era grande abbastanza per accogliere il legno orizzontale della croce. La testa completamente reclinata e i lunghi capelli pendenti, come due quinte a nascondere lateralmente il volto.

Ma quello che si vedeva disteso sulla sabbia nel bagliore torrido di luglio era una specie di bassorilievo che ricordava la stupefatta fisssità di certi volti dell’arte egizia. Si vedeva quel volto, e l’ informe, gigantesco tronco dove soltanto un visionario poteva immaginare un crocifisso.

Sullo sfondo I bagnanti, le surreali torri dell’ Enel. Nel controluce del tramonto, l’uomo, in piedi sul tronco, agitava le braccia e il vento si portava via le parole. La parola greca eucaliptus, spiegava, significa ben nascosto. Spiegava di non essere uno scultore, casomai un poeta, che scriveva poesie, gli piaceva in particolare Ungaretti; raccontava della sua conversione, spiegava che c’era un Crocifisso nascosto nell’albero.

Un musicista sardo, Nicola Spanu, aveva visto un video sullo scultore che sembrava Van Gogh e gli aveva voluto regalare una musica, una sua variazione di un canto popolare sardo, Coggiu de Santu Srabadoi. Questo non è un Crocifisso, ma un Salvatore, aveva scritto Nicola.


Nella notte fra il 24 e il 25 aprile la scultura è stata issata a pochi metri dell’arenile, su suolo demaniale.
Altissima, drammatica, spaesante. Scura, quasi nera come il Crocifisso di Siculiana, ma ricoperta di una sottilissima patina di sabbia, che aggiunge una dorata tonalità di giallo. Le gambe, il torace, le braccia appese sul corto legno orizzontale, sembrano appartenere a tre corpi diversi. Nell’inevitabile controluce si intravede il volto, che non è più quello visto in estate, che sembra ora una maschera africana. Sullo sfondo il mare, a cui la scultura da le spalle; guardando verso il Porto, si vede una delle torri dell’Enel, perfettamente allineata alla croce.


Il giorno dopo su Facebook un post dell’ex sindaco di Porto Empedocle e di Agrigento, Lillo Firetto, elogiava l’opera raccogliendo numerosissimi consensi. Di semplici cittadini, di intellettuali, di noti esponenti dell’ambiente artistico e culturale della città. Nei giorni successivi decine di altri post, foto, video, articoli sui giornali locali, interviste ai protagonisti di una storia che potrebbe diventare una leggenda cittadina.

Dopo due settimane l’opera è lì, immersa nel paesaggio come una imprevista, necessaria incongruenza, per il sogno di un uomo, un cristiano visionario, meta di un pelleginaggio laico, icona che commuove, stupisce, interroga.

La storia di quest’opera, la sua esposizione sul web, non deve rischiare di nasconderla dietro le sue immagini. Bisogna andare lì a sostare, a vedere, a guardare. Come si guarda l’arte o si dovrebbe, con uno sguardo pulito e la mente aperta.

Ha scritto Daniele Moretto: “E’ una delle espressioni più alte, in tutti i sensi, di religiosità attraverso l’arte ch’io abbia mai visto. E anche della proprietà del legno di restare sempre vivo.”

La torsione espressionistica della figura, le sue interne sproporzioni, la sua stessa dismisura, sembrano evocare i primi decenni del secolo scorso, quando le avanguardie europee si aprivano alle arti ‘primitive’, non solo africane. O l’iconografia cristiana gotica, prerinascimentale. L’autore può sembrare naïf, ma ha visto e letto, ha viaggiato.

Nel video la musica è quella che gli ha dedicato Nicola Spanu, meraviglioso artista, che ci ha lasciati nell’autunno scorso. E che adesso, dice la sua compagna, è un angelo.

Di Bac Bac