di Vincenzo Clementi

Faiq Hassan

Nel 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania e contro Francia e Inghilterra. Secondo i dirigenti italiani di allora doveva trattarsi di una guerra lampo. Nel giro di pochi anni la Germania conquistò mezza Europa avanzando vittoriosamente su tutti i fronti. Nel 1941 la Germania attaccò a tradimento l’Unione Sovietica e all’Italia alleata venne destinata la conquista della Grecia, della Jugoslavia, della Russia meridionale. Occorreva reclutare nuovi soldati per la Grande Impresa.

Nel 1942 mio padre aveva 35 anni e famiglia: era sposato e teneva tre figli: un maschio di undici anni e due femmine, una di otto e l’altra di due. La Patria lo strappò alla sua famiglia e al suo lavoro: era bracciante agricolo e teneva in mezzadria un pezzo di terreno del cavaliere Comparato al Casserino. Fu arruolato per imbarcarlo al fronte russo nonostante avesse già espletato il servizio militare prima di sposarsi.

Nella mattina del dieci luglio 1943 gli americani sbarcarono a Torre di Gaffe e mio fratello, di dodici anni, fu testimone di quello sbarco perché lavorava presso mia zia Maria, sorella di mia madre, che aveva l’orto di pomidoro a Gaffe. Mio fratello, si chiamava Vincenzo, io ho preso poi il suo nome, quel giorno non raccolse pomodori, tornò di corsa a piedi da Gaffe verso la mia casa di via Calatafimi per stare con la mamma e le due sorelline perché il papà non c’era; si trovava militare in attesa di essere imbarcato per il fronte russo.

Altri soldati, tra i quali diversi palmesi, erano già in combattimento sul fiume Don, contro la Russia sovietica. L’otto settembre 1943 il capo provvisorio del governo italiano Badoglio firmò l’armistizio con gli anglo-americani e l’Italia cambiò alleati: prima era con i tedeschi, ora, improvvisamente, contro. Mussolini era stato prima arrestato dal governo italiano e poi liberato dai tedeschi e andò a fondare la Repubblica di Salò alleata dei nazisti e contro gli italiani antifascisti, iniziando così la guerra civile tra italiani. Una immane tragedia che vide gli italiani divisi e nemici. L’Italia del Sud era occupata dagli anglo-americani e quella del centro-nord dai tedeschi ora nostri nemici. Napoli e Roma bombardate dagli aerei americani, i tedeschi e i fascisti italiani uniti contro altri italiani, i partigiani. Nel frattempo continuava il rastrellamento degli ebrei italiani insieme ai sospettati comunisti, socialisti e antifascisti che venivano rinchiusi nei vagoni bestiame e trasportati nei campi di concentramento in territorio tedesco e polacco. Ora sappiamo che fine hanno fatto. Chi protestava veniva ammazzato sul posto.

Mio padre, soldato italiano a Genova, alleato dei tedeschi, che doveva partire per occupare la Russia, immediatamente, senza sapere il perchè, quell’otto settembre del ’43, si ritrovò prigioniero dell’esercito tedesco e infilato, insieme a tanti altri suoi sfortunati compagni, in un vagone bestiame di un treno blindato diretto verso la Germania via Genova-Ventimiglia attraverso la Francia occupata dai tedeschi. Ma nella Savoia, mi raccontava poi mio padre, un gruppo di partigiani francesi attaccarono il convoglio e fu battaglia tra tedeschi e partigiani francesi. I partigiani ebbero la meglio e liberarono le centinaia di soldati italiani. Mio padre, come gli altri soldati italiani, con ancora indosso l’uniforme dell’esercito, riparò nelle case dei francesi che gli fecero vestire abiti civili e scappò verso il Nord della Francia protetto dai partigiani.

Furono mesi di girovagare tra un villaggio e l’altro nelle regioni della Francia occupata dall’esercito tedesco. Giunse, non per sua volontà ma trasportato dagli eventi bellici fino all’Olanda, nei pressi di Amsterdam, anche lì occupata dalle truppe tedesche. Una famiglia olandese si prese cura di lui, lo nascose tra grandi rischi nella loro fattoria e qui mio padre trovò riparo fino a quel fatidico giorno del 6 giugno 1944 quando avvenne lo sbarco alleato in Normandia. Chi avesse ospitato ebrei o prigionieri scappati all’esercito tedesco sarebbe stato fucilato immediatamente.

Alcuni giorni prima dello sbarco angloamericano nella Normandia francese mio padre fu scoperto dai soldati tedeschi e venne arrestato insieme al padrone di casa ospitante. Furono portati, con le mani legate dietro alla schiena, nella più vicina caserma e da lì, era stato già deciso così, dovevano essere trasportati verso i campi di sterminio della Germania. I tedeschi forse erano stati informati della presenza di mio padre in quella famiglia. Mio padre e il proprietario della fattoria si erano nascosti in uno scantinato coperto da un tappeto. Battendo il pavimento con la parte in legno del fucile i soldati avevano scoperto il nascondiglio.

Ma dopo lo sbarco in Normandia i tedeschi si ritirarono rovinosamente verso la Germania per resistere all’avanzata anglo-americana ad Ovest e a quella dei Sovietici ad Est. Dall’altra parte del fronte l’Armata Rossa avanzava e furono liberati altri palmesi, prima alleati e, dopo l’otto settembre del 1943, prigionieri dei tedeschi come mio padre. Molti ripararono presso le famiglie russe, le stesse famiglie che dovevano essere occupate dai soldati italiani per conto di Mussolini e Hitler. Di questa esperienza dei soldati italiani in Russia me ne parlò a lungo, raccontando con commozione e nei particolari, u pinu Peppe Greco, ormai anziano, nei pomeriggi estivi di riposo nella sua casa di Murtiddi, limitare a quella di mia sorella.

Si emozionava u pinu Peppi nel parlare della generosità della popolazione russa che accolse i soldati italiani invasori ora ricercati dai soldati tedeschi. I soldati italiani fuggitivi che venivano catturati dai soldati tedeschi venivano deportati nei campi di concentramento in Polonia.

Mio padre mi raccontava di questa sua disavventura ma ero troppo piccolo per capire. Ora, da grande, u pinu Peppe Greco raccontava e rispondeva con accoramento alle mie curiose domande. Anche lui fu salvato e nascosto da una famiglia russa. Anche lui ritornerà a casa dalla Russia dopo la fine della guerra. Intanto mio padre e l’olandese padrone della fattoria rimasero nelle carceri mentre i tedeschi scappavano inseguiti dagli angloamericani contravvenendo spesso agli ordini di Hitler di non lasciare in vita eventuali prigionieri. L’ordine era di tornare immediatamente in Germania senza lasciare vivi i prigionieri, un colpo alla nuca e via, di corsa. Anche i soldati tedeschi erano spaventati e stanchi di tanta inaudita violenza. Quella volta pensarono di salvare la loro pelle e non persero tempo ad uccidere i prigionieri. Furono poi liberati dai partigiani olandesi. Siamo ai primi di giugno del 1945. La guerra infuriava in Olanda, in territorio francese, nei paesi dell’Europa orientale, nell’Italia del centro Nord mentre in Sicilia era finita dal luglio 1943.

Mia madre non aveva notizie di mio padre e nemmeno le altre spose dei soldati in guerra nel fronte russo e jugoslavo. La mia sorella maggiore, a cena, non mangiava tutto: metteva da parte del cibo nel caso il suo amato papà improvvisamente tornasse. La loro cena non poteva essere come le altre famiglie e la polenta, per esempio, nel dialetto palmese a ciciotta, era considerato un cibo prelibato, bisognava nominarla diversamente: “mangiaezittiti”. Alla domanda: – Cosa avete mangiato ieri sera? La risposta doveva essere: mangiaezittiti. Perfino ai tempi di me bambino ancora la polenta si chiamava così: mangiaezittiti.

Mio padre, tornato in libertà, rimase ad Amsterdam fino a giugno del 1945. Non era possibile comunicare con la propria famiglia lasciata laggiù in Sicilia. Gli eserciti si combattevano furiosamente. Il 25 aprile 1945 l’esercito sovietico e quello americano si incontrarono sul fiume Elba, in Germania, e la divisero in due: Germania orientale ai Russi e Germania occidentale agli angloamericani. Berlino fu poi divisa in due, come sappiamo, in Berlino Est e Berlino Ovest. Solo dopo la pace mio padre, pian piano, poté ritornare a casa ad abbracciare la sua famiglia. I bambini erano cresciuti. La più piccola aveva cinque anni e, nei primi giorni, si spaventava del papà che non riconosceva più. Ne parla ancora. Dopo alcuni mesi arrivò una lettera, insieme ad altre, dall’Olanda, da Amsterdam. C’era la foto raffigurante mio padre al centro di una bella famiglia olandese, ben vestito e coccolato.

Amsterdam, 1945

La foto fu spedita per posta e mio padre la vide dopo mia mamma che la conservò gelosamente fino ad arrivare a me in buonissimo stato. E non solo quella foto fu conservata bene da mia mamma ma tante altre insieme a cartoline che mio padre era riuscito prima a spedire o a raccogliere e conservare. Mia madre era analfabeta, non sapeva leggere e scrivere, raccolse tutte quelle immagini e le ricamò.

In una di queste era scritto: “Amsterdam, 9 Giugno 1945 Mia cara sposa, ti scrivo la presente per darti notizia che sto bene. Così spero sentire da te e dai nostri bambini. Stai tranquilla, speriamo che trascorrano solo pochi giorni e poi ci rivediamo tutti quanti. Prima di questa cartolina t’ho spedita una lettera e tre cartoline, speriamo che li ricevi. Fino ad oggi ancora non sono partito ma in questo mese, ci dicono, che ci devono mandare a casa, giorni più giorni meno. Adesso che sono libero il tempo non è niente. Ricevi abbracci assieme ai nostri cari figli. Sotto mi scrivo il tuo amabile sposo Angelo. Arrivederci a presto.”

Mia madre raccoglieva le cartoline che papà scriveva e imbucava nell’Olanda liberata ma recapitate dopo il suo arrivo a casa. Le cucì tutte con un bel ricamo e ne venne fuori un coloratissimo copritavolo che mia madre teneva ben conservato e lo tirava via il giorno del Venerdì Santo quando la nostra casa, vicina alla Croce, diveniva meta di tutti i parenti provenienti anche dai quartieri più lontani.

Il copritavolo si trasformava in una preziosa lavagna e per quel giorno mio padre teneva lezioni di geografia a tutti i monelli curiosi della famiglia. E c’era di tutto in quel copritavolo: la Germania dove mio padre era stato a lavorare prima della guerra, i paesaggi tedeschi fatti di neve e i grandi fiumi, l’Olanda con i suoi mulini a vento, le dighe, i tulipani, le piazze e le case sul mare, c’erano anche le foto di mio padre e dei suoi colleghi militari in diverse e strane pose, con i compagni di lavoro in Germania, della famiglia che l’ospitò durante la fuga dai tedeschi. Il copritavolo era una grande lavagna di storia e di geografia ed è stato un vero peccato perderla in questi anni di cosiddetta prosperità economica.

In altri tempi mia madre, analfabeta, ebbe la capacità di raccoglierle tutte quelle cartoline e quelle foto come testimonianza delle fatiche sopportate, come ricordo di un passato fatto di lacrime e sangue. Ci voleva l’opulenza dei cosiddetti tempi moderni, l’istruzione della scuola di massa per fare avanzare l’oblio che tutto stritola e cancella. Una grave perdita per me che non finisco ancora di sperare di ritrovarlo. Si perse negli ultimi anni di vita di mia mamma. Qualcuno, nel fare pulizia in casa, ebbe a giudicare inutile quel copritavolo e lo buttò nell’immondizia come si sta facendo con la Storia in questi tempi dell’ignoranza di ritorno.

E il giorno che papà andò via per sempre, in un freddo gennaio del 1978, nella sua mente sicuramente doveva esserci il copritavolo con le cartoline illustrate. Non era la prima volta che andava via e questa volta, dal momento che il viaggio doveva essere più lungo, forse pensava che avrebbe spedito più cartoline della prima volta e a raccoglierle questa volta non ci sarebbe stata solo la mamma, ci sarei stato io, con la passione per la storia e la geografia trasmessami da lui stesso, in persona.

Perché sto pubblicando questa foto? Per i miei genitori non rappresentava un segreto. Infatti, insieme ad altre, alcune si sono salvate e sono ancora in mio possesso, sono state in bella mostra da sempre nell’album di famiglia. Mia mamma fu sempre grata a quella famiglia che rischiò la propria esistenza per accogliere mio padre, suo amato sposo, come è scritto nella lettera, e padre dei suoi bambini.

Oggi più di ieri quella foto di mio padre al centro della famiglia olandese rappresenta un documento di grande valore dell’accoglienza verso gli stranieri, dell’aiuto verso i perseguitati. Il ricercato, il prigioniero fuggitivo accolto e posto al centro dell’attenzione affettiva di tutta la famiglia ospitante.

Mio nonno paterno era stato nel comitato direttivo del partito socialista palmese, mio padre continuò a testimoniare la fede socialista di suo padre. Dall’Olanda, nelle sue lettere alla moglie e ai figli, che ancora conservo gelosamente, finiva sempre con il motto: viva il partito socialista, viva il socialismo. Non fu mai un dirigente socialista o comunista ma rinnovava sempre la tessera della CGIL, del partito socialista e poi, seguendo il suo leader Angelo Scopelliti, segretario della Camera del Lavoro palmese, quella del PCI di Togliatti e Girolamo Li Causi. Tutte quelle tessere furono conservate con cura e le tengo ancora io a testimonianza di un antico amore tra le idee socialiste e la mia famiglia.

Il 25 aprile è sempre stata festa a casa mia. Si festeggiava anche con un bicchiere di vino alla salute della Repubblica e della pace ritrovata. Il 25 aprile a casa mia era come la Pasqua dove mio padre e poi io, portavamo sulle spalle la Madonna dello “Scontro”, la mamma di Gesù che con la bandiera rossa e le spighe in mano rappresentava la riscossa e la Resurrezione dalla morte; la Liberazione dopo la guerra, la promessa di un mondo migliore in cui anche i figli dei contadini poveri potevano diventare insegnanti, medici, ingegneri, ricoprire cariche pubbliche. Non come ai tempi del fascismo e della monarchia dove a comandare erano solo i ricchi e i campieri.

La mia condizione da bambino, alla fine degli anni cinquanta, era simile a quella di altre decine di bambine e bambini come me, migliaia nella mia città, milioni in Italia. Nelle scuole di me bambino erano presenti i manifesti del dopoguerra in cui si invitavano i bambini a non raccogliere eventuali bombe inesplose. Un mio compagno di classe, oggi ancora mio amico, perse un dito nell’esplosione di una bomba raccolta per le campagne. E che scuole erano quelle da me frequentate: in prima elementare oltre una trentina di alunni dei quali solo meno di venti arrivavano in quinta. Gli altri bocciati o si ritiravano dalla scuola per andare a lavorare nelle campagne.

Tornato dalla guerra nel 1945, solo un anno dopo, nel maggio del 1946, a mio padre gli morì il figlio Vincenzo, primogenito, a soli 15 anni, per un forte dolore allo stomaco. Forse una peritonite acuta. Sei anni dopo nacqui io, sotto la carruba del Casserino dove erano nati anche le mie sorelle e mio fratello. Mio padre, mentre faceva colazione, sentì il pianto di un bimbo provenire da sotto un grande masso al quale era appoggiato. Spostò il masso con l’aiuto del nostro asino e trovò me, sporco di terra. Mi lavo’ con l’acqua del vallone Casserino, acqua buona che arrivava con la condotta fino alle monache del Monastero di Palma, e, felicissimo, finalmente un altro maschio in famiglia dopo il figliolo morto di appendicite, mi consegnò nelle braccia della mia mamma che mi crebbe con delicatezza e dolcezza chiamandomi come il figlio che le era stato tolto da un destino crudele.

A novanta anni la ricoverai presso l’ospedale di Agrigento e in un ecocardiogramma al cuore il medico trovo’ una cicatrice ancora evidente.

“Signora, – le riferì il medico – si vede un’antica cicatrice al cuore. Le sarà accaduto qualcosa di spiacevole tanti anni fa, credo durante la guerra.” ”

“Si vidi ancora? chiese la mamma – Segna la morte del mio bambino di quindici anni. Era il mio capofamiglia negli anni della guerra. Il suo papà era soldato.”

Sulla terra della tomba di mio fratello, che mia mamma non volle mai visitare in tutta la sua lunga vita, mio papà coltivava bellissimi gigli, gli Iris. Trascorsi trentacinque anni i resti del corpo di mio fratello furono traslati nell’ossario comunale e di lui non rimase più nemmeno un numero. I gigli furono portati da mio papà nel piccolo appezzamento di terreno di Murtiddi che ancora io coltivo e che per il 25 aprile cominciano a sbocciare nel massimo del loro splendore a circondare il recinto del nostro terreno. E, nel ricordare la bella poesia di Gianni Rodari, “La madre del partigiano”, li ho posto dentro il recinto, per essere visti e non strappati perché, come recita la poesia “…O tu che passi non lo strappare: è il fiore della libertà”. Ecco cos’è stato ed è ancora per me il 25 aprile! Buona Festa della Liberazione a tutti.

Di Bac Bac