di Tano Siracusa

Fortissimamente pugnando
Caddero
Sotto la barbara lancia abissina
Invocando l’Italia
Pochi contra oste innumerevole
Fu vittoria il morire
O madri gioite
Al nuovo esempio di eroismo
Che Sparta e Roma invidierebbero

Questo il testo della lapide del marzo 1887 che commemora quattro agrigentini caduti nel gennaio dello stesso anno a Dogali, in Eritrea. Era l’esordio della prima impresa coloniale del Regno d’Italia che si sarebbe interrotta dieci anni più tardi durante il terzo governo Crispi con un altro massacro, ad Adua.
Chissà cosa avrà pensato Pirandello la prima volta che ha letto quella lapide e durante le sue numerose visite in città.
Sicuramente gli sarà dispiaciuto lo ’stile’: aulico, latineggiante, che non sarebbe invece dispiaciuto a D’Annunzio, che l’agrigentino dtestava. Probabilmente dopo il successo dei ’Sei personaggi’ nel ’21 e mentre le squadre armate di Mussolini si preparavano a marciare su Roma, avrà meditato sul suo giovanile patriottismo garibaldino, la senile inclinazione per il nazionalismo fascista e le sue ambizioni imperialiste che lo indurrà a prendere la tessera del Partito dopo il delitto Matteotti e a tacere sui misfatti del regime in Africa.
Chissà se la sua probabile insofferenza per lo ‘stile’ della lapide facesse velo all’idea di patria che il testo consegnava alla memoria collettiva. Se vi si riconoscesse.

Dal 1995 il busto di Pirandello inquadra la lapide dal marciapiedi di fronte vicina all’ingresso di Palazzo dei Giganti e, sulla destra, l’altra lapide, che ricorda gli agrigentini esiliati a Malta dal governo borbonico per aver partecipato ai moti del ’48. Fra gli altri il suo nonno materno, Giovanni Ricci Gramitto. Con la fronte leggermente aggrottata osserva la facciata del palazzo e quelle due lapidi: con probabile, dolente orgoglio alla sua destra il ricordo del nonno, con indecifrabile perplessità la lapide alla sua sinistra. Dentro il palazzo, già convento dei Cappuccini, il teatro che dal dopoguerra ha il suo nome: il suo teatro. Luogo di confine, dove la realtà e la finzione, la vita e la forma, si scambiano le parti, dove nel ’24 la sua compagnia aveva messo in scena ‘Così è, se vi pare’.
Forse medita adesso su quel ‘madri gioite’, sulla ‘barbara lancia abissina’, su Sparta e Roma che ci invidierebbero quelle povere vittime. Non eroi, ma militari di un esercito di occupazIone, probabilmente analfabeti come più del 90% dei siciliani in quegli anni, catapultati per le velleità colonialiste di Depretis in una landa desolata del Corno d’Africa e mandati al macello. Senza neppure la scusa di una minoranza italiana da proteggere.
Forse riflette su come una ‘narrazione’ degli eventi storici possa diventare col passare del tempo spaesante e oltraggiosa, perfino oscena. E al tempo stesso pressoché invisibile.
Nessuno infatti sembra accorgersi di quella lapide, tranne pochissimi; anni fa un illustre, indignato giornalista, forse oggi qualche perplesso turista, qualche italiano che non avrà il tempo di riflettere sull’illusorietà delle verità umane, su come sia oggi problematico riconoscersi felicemente appartenenti a una patria comune. Almeno fino a quando una lapide racconterà in quel modo il disastro di Dogali e le sue vittime, e nessuno sembrerà stupirsi.

La cultura è anche memoria del passato e consapevolezza del presente, e forse Agrigento è una città che ne difetta.

Di Bac Bac