di Tano Siracusa

In calle Florida, prima strada chiusa al traffico e affollatissima, il passo svelto di chi entrava e usciva dalle banche, di chi era in giro per lavoro, attraversava quello lento degli sfaccendati, aggirava i ballerini di tango e i ragazzini senza scarpe che dormivano per strada e mendicavano davanti ai caffè di mattina presto. In agosto a Buenos Aires fa freddo e malgrado la ripresa economica del paese dopo la bancarotta del 2001 i segni della povertà, dei contrasti sociali, si manifestavano non solo in periferia. Nel ricordo di quel 2007 Florida è piena di hotel, di ristoranti, di locali e negozi, di vecchi palazzi che ripetono i trascorsi fasti architettonici europei e di palazzi recenti, moderni, senza concessioni al kitsch, fra i quali si apriva una meravigliosa libreria multipiano, dove si poteva trovare e leggere comodamente il romanzo postumo di Roberto Bolaño 2666 ancora inedito in Italia, sotto le grandi fotografie di Borges e Cortázar.
La congestione di Florida o di altre vie del centro che sfociano a Plaza de Mayo celava le dismisure degli spazi. A nord, a ovest e a sud Buenos Aires si inoltrava verso sconfinate lontananze, rese “quasi invisibili dall’abitudine”, come scriveva Borges delle piccole case di Palermo, sotto cieli che sembravano incombere e schiacciare la presenza umana, o comunque rimpicciolirla.

Da Florida, lungo viali diritti come piste nella invisibile pampa di tre secoli fa, si poteva raggiungere il quartiere di Palermo, le strade ‘desganadas del barrio’ che il giovane Borges ritrovava tornando dall’Europa e di cui non è rimasto quasi nulla. Al loro posto un anonimo quartiere di grattacieli e palazzoni, di frastuono, di ‘turba y de ajetreo’, come scriveva delle strade del centro del 1921. Da cui il poeta, ‘el solitario’, si allontanava per ritrovare nelle calles periferiche di Palermo “una promesa, porque millares de almas singulares las pueblan, únicas ante Dios y en el tiempo, y sin duda preciosas“. Una promessa, quelle case e strade di Palermo, che: “… son también la patria”. Non l’Argentina, ma Buenos Aires, il sobborgo di Palermo. Ossessione personale dello scrittore argentino che vi era cresciuto e vi ritornava dopo il lungo soggiorno in Svizzera e in Spagna, e che nel ’23 vi pubblicava la sua prima raccolta in versi Fervore di Buenos Aires. Ma una ossessione, la patria, diffusa e anche variamente declinata in una popolazione di sradicati. La patria, il ‘noi’ nella sua estensione territoriale, perduta nella memoria e indeterminata nella pampa: la patria, il confine.

A ricordare quelle calles di Borges rimane un secolo dopo solo qualche scorcio di vecchie strade con costruzioni a due piani trasformate in caffè e locali per turisti.
A Buenos Aires, in questo mosaico non solo arhitettonico dell’immaginario europeo, si incrociano i cognomi e la cucina italiani con il melodioso castigliano dei suoi abitanti, il passo londinese degli uomini di affari con un angolo di Francia che sembra affiorare dalle pagine di Rayuela, dove come in un gioco di specchi Julio Cortázar ritrova Parigi a Buenos Aires, illudendo il protagonosta di riconoscere in un’altra donna l’amata Maga scomparsa.

A San Telmo c’era l’illusione di una Parigi appartata, popolare e un po’ bohémien, nei cui caffè la mattina ci si poteva riscaldare ammirando la luce grigia, invernale, che filtrava dalle vetrate e si rifletteva negli specchi. Le cartoline del quartiere mostravano gli stessi luoghi nella versione estiva e vacanziera, assai meno disadorna e convenzionalmente orientata all’offerta turistica. Come a Boca, dove il tango e il pallone rendevano ovunque omaggio a Maradona, e l’inverno, o forse l’abitudine fotografica di vedere in bianco e nero, cancellavano il cromatismo festoso e un po’ lisergico delle facciate delle povere abitazioni, il verde e il giallo, il blu oltremare, i rossi lampeggianti: tutto scolorato, immerso nel grigio della ferialità quotidiana, e distanziato.

Ma anche Buenos Aires alla fine si smarriva fino a svanire nel sogno della pampa, nella dismisura di quegli spazi dove i primi conquistadores avanzavano come in un nuovo mondo da possedere e da contendersi. Terra, terra a perdita d’occhio. E i militari e i potenti che li armavano cercavano confini, ne erano ossessionati. Le città adesso espongono assieme a quelle nazionali anche le glorie delle patrie lontane. Garibaldi ad esempio, il cui nome è stato dato a un paese fondato nel 1886, e la cui figura troneggia a Buenos Aires non lontano da quelle dei tanti heroes nazionali, e a Rosario, dove è nato Ernesto Che Guevara, solo da pochi anni ricordato con un monumento pubblico. La pampa, teatro interminabile di inteminabili conflitti, si estende verso nord fino a Selta che fronteggia la cresta delle Ande, le montagne lunari che separano l’Argentina dai nativi del continente latinoamericano.
In Bolivia, in Cile, dall’altra parte della muraglia di rocce, la componente indigena è infatti maggioritaria in vaste zone, per quanto tradizionalmente emarginata e socialmente subalterna.

A parte l’insediamento dei Mapuche in Patagonia, nel resto dell’ Argentina i nativi, già scarsamente presenti nel XVI sec., erano ridotti a poche decine di migliaia alla fine dell’800, sopravvissuti ai massacri ed espropriati della terra. Agli inizi del ‘900 l’immenso e ricco paese appariva così, ad eccezione della turbolenta enclave meridionale dei Mapuche, come una terra vergine da inseminare se non di sangre limpio, almeno di solo sangue e spirito europei. Una inseminazione che ha elaborato, fra le tante suggestioni culturali spagnole e poi inglesi, francesi, italiane, anche un’originale ossessione per la patria e i confini, e la connessa passione per i colpi di Stato, per le forzature militari, per le dittature, fino all’ultima del 1976, tre anni dopo il golpe cileno e particolarmenre feroce del generale Videla, poi condannato all’ergastolo. Prima e dopo la sua effettiva formazione come Stato nazionale nella prima metà dell”800, la storia del paese è un susseguirsi turbinoso e romanzesco di conflitti territoriali, di colpi di mano militari, di caudillos, di federales e unitarios, di austere figure di generali golpisti, di dittatori e Capi di Stato durati poche ore; come in un malriuscito esperimento di realismo magico che mescola l’inverosimiglianza degli eccessi, il gusto dell’iperbole alla dura vita di un’umanità espatriata, spaesata anche linguisticamente in alcune, diffuse minoranze; come quella italiana, in fuga dalla miseria delle nostre campagne. Coloni affamati di terra, utopisti, avventurieri, preti missionari, militari, affaristi senza scrupoli, divisi fra il ricordo della Spagna e il sogno di una patria nuova da inventare, da definire, da confinare.

Come se l’Argentina, la sua storia, fosse stata destinata a provare la dimensione puramente immaginaria, in fondo utopistica dei confini, e la loro necessità, la coazione a inventarli quando prevale la follia del dominio, del limite da superare, del nemico da sconfiggere, dello sconfinamento. Quando la patria non è più un gomitolo di strade e di case, il ricordo di un tramonto o il tedio di un sobborgo che racchiude l’intera pampa, ma una bandiera, una Nazione. Il confine e lo sconfinamento come ossessione degli spazi ulteriori nel paese senza fine, con le sciabole e i cannoni, fra coloro che parlano la stessa lingua e sostengono di credere nello stesso Dio. Degli “altri”, dei nativi, nel ‘500 europeo che si inoltrava nella modernità, si discuteva appassionatamente se avessero un’anima, se fossero esseri umani.