di Vito Bianco

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

Sarebbe meglio non raccontarla. Uno scrittore uruguaiano che ho molto amato in gioventù ha detto o scritto che una storia come questa va bene per una mezza colonna nelle pagine di cronaca di un quotidiano di provincia. Però è il caso di aggiungere, per completezza, che lui, lo scrittore uruguaiano da una vicenda simile a questa ha ricavato alcuni anni dopo un racconto lungo o romanzo breve che diede al suo autore una meritata fama. La storia che sarebbe meglio lasciare nella sua protettiva ombra mi è arrivata da tre fonti, o voci, tre filtri insomma, tre diversi narratori, l’ultimo dei quali l’ha, per quanto posso capire, riassunta e perfezionata, suggellandola con una specie di interpretazione o morale della favola, come sarebbe probabilmente più corretto dire. L’uomo si chiamava Luis, su questo pare non ci siano dubbi. Luis detto Luisito. La donna Manuela. Ma a essere sincero, non sono del tutto convinto che la donna faccia parte della storia. Eppure, indubitabilmente, c’è, sarebbe scorretto lasciarla fuori, far finta che non sia mai esistita evitando di dire che di Luis era la moglie. Così abbiamo l’uomo e la donna. Entrambi e un viaggio verso la capitale. Lo fa l’uomo, dice la prima fonte. Sì, l’uomo, conferma la seconda voce. La terza ne dubita, seppure con poca convinzione, proponendo l’ipotesi, tutt’altro che campata in aria, che a farlo sia stata la donna. Quindi abbiamo il viaggio; se togli il viaggio salta la linea narrativa principale e ci tocca rivedere tutto, tranne forse il finale, sicuro come la morte.


Nella capitale la donna incontra un vecchio amico, un amico del tempo degli studi universitari. L’uomo potrebbe invece aver incontrato un’antica fiamma, anch’essa risalente all’epoca degli studi umanistici. Come si vede, le due trame banalmente convergono nella scontata situazione del tradimento sessuale, potenziale o realizzato. Avrei voglia di fermarmi qui e dare definitivamente ragione allo scrittore uruguaiano che sconsigliava di utilizzare storie tanto scopertamente vere da sembrare inverosimili.


Ma facciamo ancora qualche passo. Succede quindi che l’uomo – o la donna – parte per la capitale con il primo treno del mattino. Nel tardo pomeriggio incontra una donna. Si vedono in un caffè di Corrientes, prendono un caffè e un succo di frutta, mangiano dei pasticcini alle mandorle, pagano ed escono. Passeggiano, parlano, lui alza il bavero del cappotto per via del vento che fa fremere e flettere le foglie e i rami dei tigli ben allineati lungo uno dei lati della strada, lei, l’amica di Luis, ferma con una mano il cappello rosso che potrebbe volare via. Si sorridono. Lui ora la prende sottobraccio, le sussurra qualcosa in un orecchio, la donna sgrana gli occhi per lo stupore e ride tenendo una mano guantata davanti alla bocca.


Verso le nove entrano in un cinema di calle Briante e guardano una versione restaurata di Casablanca. Quando sentono “avremo sempre Parigi” si commuovono e mentalmente ringraziano il buio che li nasconde. La coppia viene notata dalla signora della biglietteria e da un ragazzo sui vent’anni seduto sulla prima poltrona della fila che avevano scelto, posti centrali, per vedere meglio lo schermo. Lo afferma la seconda fonte; il particolare era già nel primo resoconto, seguito da una lunga e prevedibile digressione sulla memoria visiva e il dettaglio che aggancia il ricordo (nel nostro caso il dettaglio sono gli occhiali scuri della donna, che deve aver tolto per vedere bene il film con Bogart e Ingrid Bergman). Sono usciti alla fine della proiezione, intorno alle undici. Poi sono andati in un locale che offre buona musica tutte le sere alle otto, il Portero negro.


Dei due si ricorda la giovane bionda che appena dopo l’ingresso prende in consegna cappotti e soprabiti, il cameriere italiano e Felipe, un cliente abituale del Portero, un cinquantenne di bella presenza che ci prova con tutte, dice la guardarobiera, ci ha provato anche con lei, ovvio, che l’ha mandato in bianco, i tipi come lui lei li fiuta da lontano e sa che è meglio perderli che trovarli. Il cameriere italiano ha detto, gran bella donna, sui quaranta secondo lui, con un non so che di malinconico nello sguardo. Lui non se lo ricorda, non sarebbe capace di riconoscerlo in una fotografia, né tra cinque o sei come in certe scene di film polizieschi nordamericani, non so se ha presente. Siamo al cospetto del solito cliché, ha chiosato la mia seconda voce, la donna bella e malinconica, un’immagine romantica e struggente che si crede funzioni sempre, figurarsi se può mancare in questo caso. Come può dirlo, quanti secondi l’ha guardata? Con quella poca luce, poi, andiamo…


Quella sera suonava un trio, pianoforte basso batteria, composizioni originali e standard, My Funny Valentine, Le foglie morte, On Green Dolphin Street (“It seems like a dream, yet I know it happened”) hanno ordinato una bottiglia di champagne, bevevano lentamente, ascoltavano con attenzione, ogni tanto si guardavano sorridendosi, davano l’idea di due che si conoscono bene e possono fare a meno di parlare, non si sentono obbligati a farlo, voglio dire. Il concerto si concluse ma la bottiglia era ancora a metà. La finirono senza fretta, parlando, soprattutto lui, dice il barman, che ora li osservava, attirato da quella che gli era subito sembrata una strana coppia. Strana perché? gli hanno chiesto. Non so, ha risposto, non saprei dirlo, devo aver notato nell’uomo una specie di disperazione sotto il velo del sorriso, e nello stesso tempo mi pareva che la donna la percepisse e facesse finta di niente, forse per fargliela dimenticare, sperando che se ne dimenticasse. Ma potrebbe essere tutta una mia immaginazione, ha aggiunto il barman, un ragazzone simpatico e disponibile sui trent’anni, naso affilato e capelli lunghi e lisci, rossicci, barba folta ma curata.


Quando uscirono pioveva forte. Rimasero sotto la pensilina dell’ingresso aspettando di veder comparire un taxi. Ne passò uno una decina di minuti dopo; vi salirono e si fecero portare in una pizzeria che la donna aveva scoperto, aveva detto, una settimana prima camminando senza meta da quelle parti dopo il lavoro. Mangiarono la pizze e bevvero una bottiglia di bianco cileno. Ora erano entrambi  piacevolmente brilli, ridevano per delle battute sciocche che dicevano a turno, perdevano tempo, lasciavano che il tempo colasse dal contenitore universale delle ore, aggrumandosi e sciogliendosi come zolle di zucchero lasciate su un tavolo al sole, disse la mia terza fonte. Ma lei non era lei e lui non era lui, aggiunse. Gli altri possono dire quello che vogliono ma è evidente che prove definitive e inconfutabili non ne hanno. Quali prove? Anziché rispondere alla domanda, Alonso mi fa: chiediti perché nessuno dei due riporta descrizioni dell’uomo; chieditelo. Me lo sono chiesto, ma non ho saputo rispondere. Immagino che la mia terza fonte, Alonso, voglia insinuare che l’uomo potrebbe non essere Luis…E se l’uomo non è Luis, chi è?
Dalla pizzeria al casinò c’è un vuoto di un’ora, durante la quale i due potrebbero aver fatto qualunque cosa, più o meno. Al Paraiso arriva solo o con lei? Nessuno può dirlo con assoluta certezza. Il croupier rammenta soltanto lui. Ma lei potrebbe essersi mimetizzata nel gruppetto dei giocatori o dei semplici spettatori, o essersi mossa qua e là, tra i tavoli e il bar, come se fosse sola o in attesa di qualcuno: un amante, un marito, un amico.


Dopo la prima puntata sbagliata l’uomo, Luis o chinque fosse, non perde un colpo, in meno di un’ora vince una cifra enorme. Gli altri giocatori lo guardano con invidia e odio, anche il croupier lo guarda male. Questo tizio che non s’era mai visto prima rischia di sbancare il casinò e bisogna correre ai ripari. Arriva il direttore, che si è accorto delle espressioni preoccupate del suo sottoposto. Si avvicina all’uomo baciato dalla fortuna e gli sussurra qualcosa all’orecchio che nessuno degli altri giocatori sente, forse soltanto una anziana contessa polacca che vive da tempo immemorabile nella capitale e va dicendo in giro di essere stata una delle amanti di Gombrowicz, l’autore di Pornografia, che come tutti sanno ha vissuto più di vent’anni nel nostro paese. Luis sorride ironico, fa dei gesti con la mano libera (nell’altra, la sinistra, stringe un mucchietto di fiches), scuote la testa, allarga il braccio per tenere a distanza il direttore, si allontanano insieme verso uno dei due bar, il più piccolo e intimo, si siedono a un tavolo che li nasconde alla vista di quelli che stanno attorno ai tavoli da gioco, incantati, stregati, gli occhi stanchi e febbrili, quasi folli, disposti a giocarsi tutto, sembra, anche la stessa vita, per molti è l’unica gloria accessibile; si siedono e parlano e sorseggiano un rum.


Il direttore non fa che sorridere, è un sorriso professionale ma non per questo meno disponibile e comprensivo. Aveva un accento che non sono ancora riuscito a identificare, continuo a pensarci, a volte sono sul punto di capirlo, ma poi il capo del filo mi sfugge, ha detto quattro o cinque giorni dopo il direttore Jorge Berguenzo, sessant’anni, nato a Junín ma trasferitosi nella capitale con la famiglia quando non aveva ancora compiuto dieci anni. C’è stato un momento, giusto un momento, in cui mi è sembrato assente, come se stesse cercando di mettere a fuoco un’immagine del passato o di ricordare il nome di una persona che aveva conosciuto qualche anno prima in un’altra città, un po’ come è capitato a me con il suo accento, al quale io inspiegabilmente annetto un’importanza esagerata, dall’accento in fondo cosa si può capire, si capisce di più, molto di più dallo sguardo, dal modo di guardare, se per esempio un uomo ci guarda negli occhi, se ci guarda mentre ci parla senza abbassare o deviare lo sguardo, direi che possiamo fidarci, che da lui non può venirci male, perlomeno non un male grave, un colpo troppo basso. Il direttore Berguenzo chiese all’uomo, a Luis (se era Luis) se avesse intenzione di tornare la sera dopo, diviso tra la speranza che tornasse per perdere tutto o una parte di quello che aveva vinto e il timore che tornasse per continuare a vincere, con la possibilità che facesse fallire la sala da gioco. L’uomo giocherellò alcuni secondi con un mucchietto di fiches rettangolari che aveva davanti, sorrise quel suo caratteristico sorriso rassegnato e disse, no, stia tranquillo, non ho intenzione di tornare. O vuole che torni? Berguenzo, se era davvero Berguenzo l’uomo a cui lo disse e non il croupier, secondo l’ipotesi di una delle fonti, lo guardò serio negli occhi e rispose, faccia come crede, noi non abbiamo nulla contro di lei, certo che se continua a vincere così…, lei stanotte ha avuto una dicha, una fortuna straordinaria, sono tanti anni che faccio questo lavoro, prima croupier, poi vicedirettore di sala, infine direttore, e devo confessare che non avevo mai assistito a una manifestazione tanto eclatante della buona sorte, un vero miracolo, direi, per questo devo ringraziarla per aver accettato di allontanarsi dal tavolo dove ha realizzato la sua eccezionale vincita; sembrava, se posso osare, che una lontana divinità del gioco d’azzardo le suggerisse ogni volta la giusta puntata: nero nero, rosso rosso, poi di nuovo nero.


Potrebbe essere andata come dice lei, disse l’uomo, grattandosi la fossetta del mento coperta da una leggera peluria. In fondo, credere nel soprannaturale, o nel miracolo, per ripetere la parola che lei stesso ha usato, non è meno ragionevole o sensato che tirare in ballo la statistica, la matematica, il calcolo delle probabilità e cose simili. Non crede? Frattanto la donna girava da qualche parte, oppure  si era seduta al tavolo dell’altro bar, più grande, più raffinato, come staccato dal resto, uno spazio evidentemente destinato a coloro che non andavano al Paraiso per giocare, o non solo per giocare,  a quelli che non erano ancora stati attaccati dalla malattia mortale del gioco, la malattia che non si vede a occhio nudo ma che ti esclude dal mondo, dall’esistenza degli altri, che ti trasforma in un animale notturno; soltanto l’occhio allenato di un vecchio croupier o di un direttore è capace di riconoscere i segni nel volto e nello sguardo degli ammalati, i segni della fiamma che brucia nella mente del giocatore e lo consuma. Quell’uomo aveva i segni della malattia, ma più circostanziati e dissimulati, dava l’impressione di essere in grado, con qualche sforzo, di controllare la coazione tipica del giocatore che vive per il gioco, per il quale il gioco è l’unica ragione di vita, anche se nessun giocatore ti dirà mai che non può fare a meno di giocare, dicono tutti di avere la situazione sotto controllo, che il gioco altro non è che uno degli elementi di cui è fatta la loro esistenza, ma se gli chiedi quali sono gli altri o non rispondono o rispondono con una fandonia così evidente che li fa arrossire.
La terza fonte mi ha riferito che il direttore ha notato una donna che corrisponde alla descrizione fatta dal cameriere, ed è quasi sicuro che Luis è andato via con lei. Anche il croupier sostiene che all’inizio del gioco, per i primi dieci o quindici minuti, la donna era lì accanto all’uomo, e due o tre volte è stata lei a puntare le fiches, dopo esserrsi consultata con il suo accompagnatore. No, non aveva gli occhiali scuri, i capelli erano sul rosso, ondulati, lunghi sino alle spalle, nessun cappello, che potrebbe però aver lasciato al guardaroba insieme al cappotto. Neppure lui aveva mai visto all’opera una simile fortuna in dodici anni di lavoro, gli capita ancora di parlarne, con i colleghi di altre sale e con gli amici; alla moglie lo ha raccontato l’indomani a tavola. La moglie conferma, ma non ricorda se il marito abbia fatto il nome dell’uomo o ne abbia abbozzato una sommaria descrizione. Ha detto però che era sui cinquanta. Da questo momento, ossia dall’uscita della coppia, dall’attimo esatto in cui gli occhi del direttore del casinò perdono di vista Luis e la donna che lo accompagnava, le tracce si fanno sempre più labili fino a scomparire del tutto.


Mi viene da pensare che i protagonisti di questa banale e inconsistente storia, fatta di voci riportate e quasi mai tra loro collimanti, fatta di quasi niente, di due o tre figure sfumate, incerte, sfocate, ritirate in se stesse per pudore e desiderio di conservare un loro non certo memorabile segreto, o solamente una pena, un sottile e sobrio sconforto dovuto  chissà a cosa o a chi – o forse a niente, a un semplice difetto congenito – abbiano, come suggerisce di fare un francese del secolo scorso, cancellato con cura le poche impronte lasciate in quest’ultima scena, in quest’ultima frazione del tragitto che abbiamo provato a ricostruire, nel quale si incontrano, si toccano, si potrebbe dire, l’insperata, incalcolabile e arbitraria benigna sorte e il suo più perfetto opposto, ovvero la fine di ogni discorso, l’assoluto silenzio. Secondo la prima fonte, la casa rimase vuota per tutta la lunga ultima settimana di maggio, quella che coinciderebbe con le testimonianze che ho riportato. Ne è sicura la vicina di pianerottolo; ne è sicuro il portiere; ne è sicuro Marcelo, amico della coppia, che dopo tre telefonate senza risposta li ha cercati a casa, ha chiesto notizie al portiere e il giorno dopo li ha chiamati ancora al telefono. No, dicono la seconda e la terza fonte, il portiere, due giorni dopo quella dichiarazione, ha fatto sapere di non essere più tanto convinto, potrebbe aver visto passare il signor Luis con un berretto di lana nero e un un impermeabile beige, una sera verso le nove, senza però essere in condizione di dire precisamente quale delle sette.


La notizia apparve nel taglio basso della prima pagina del quotidiano cittadino La jornada in data 15 giugno di quell’anno fatale, uno dei molti anni fatali di questo paese che non trova pace. Sotto il titolo c’era una foto in bianco e nero. Ho conservato il ritaglio del breve articolo e la foto, che si è scurita e impastata sino al punto che è difficile capire a una prima occhiata di che si tratti. Poi, piano piano, viene in chiaro la testa reclinata, una mano aperta sulla gamba sinistra, distesa, un fazzoletto, una piccola macchia nera accanto a un piede del divano bianco – la pistola. È vero, Alonso ha ragione: non sempre la fortuna arriva al momento giusto.

Di Bac Bac